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Richard abbassò la voce. «Vede, non si può dire di no a un angelo, soprattutto un religioso come lei… Perché non saltiamo la parte della prova? Se lei potesse consegnarmela, io poi agli altri direi che la prova l’abbiamo fatta.»

L’Abate si incamminò lungo la parte in discesa del ponte. C’era una porta, aperta in fondo. Richard lo segui. A volte non hai alternative.

«Quando fu fondato il nostro ordine ci venne affidata la chiave. Si tratta di una delle più sante e più potenti sacre reliquie. Il nostro compito è di tramandarla, ma solo a chi supera la prova e si dimostra degno.»

Percorsero lunghi corridoi stretti e tortuosi, con Richard che lasciava dietro di sé tracce di fanghiglia.

«Se fallisco la prova, non possiamo avere la chiave, vero?»

«Vero, figliolo.»

Richard ci pensò un momento. «E potrei tornare un’altra volta per fare un secondo tentativo?»

Fratello Caliginoso tossi.

«No davvero, figliolo» rispose l’Abate. «Se ciò dovesse accadere, con ogni probabilità non saresti più molto…» esitò, poi disse «… interessato. Ma non ti crucciare, magari sei tu quello che conquista la chiave, eh?»

Il tono rassicurante nella sua voce aveva un che di agghiacciante, e riusciva a spaventarlo molto più di qualunque tentativo diretto.

«Mi ucciderete?»

L’Abate guardava avanti, con occhi di un azzurro lattiginoso, e rispose con un lieve accenno di biasimo. «Siamo uomini santi» disse. «No, è la prova a ucciderti.»

Scesero una rampa di scale e entrarono in una stanza dal soffitto basso, simile a una cripta, con le pareti decorate in maniera bizzarra.

«Adesso» disse l’Abate «sorridi!»

Si udì il sibilo elettronico del flash di una macchina fotografica che per un attimo accecò Richard. Quando riacquistò l’uso della vista, fratello Caliginoso aveva già abbassato una Polaroid vecchia e malconcia e stava estraendo la fotografia.

Il frate attese che fosse sviluppata, poi la fissò al muro con una puntina.

«Questo è il muro di coloro che hanno fallito» sospirò l’Abate. «Vogliamo essere certi che nessuno venga dimenticato. Portiamo anche questo peso: la memoria.»

Richard fissò i volti. Alcune Polaroid; venti o trenta altre fotografie, alcune stampe seppiate e dagherrotipi; quindi seguivano disegni a matita, acquarelli e miniature. Correvano lungo tutto un muro. I frati ci si dedicavano da molto, molto tempo.

Porta rabbrividì. «Sono cosi stupida» borbottò. «Avrei dovuto pensarci. Siamo in tre. Non sarei mai dovuta venire subito qui.» La testa di Hunter si muoveva da una parte all’altra. Aveva preso nota della posizione di ogni frate, di ogni balestra; aveva calcolato le probabilità di far arrivare Porta dall’altra parte del ponte, prima incolume, poi con qualche lesione di poco conto, e infine con una ferita grave a lei stessa ma solo una piccola a Porta. Ora stava ricalcolando. «E cosa avresti fatto di diverso se avessi saputo?» chiese.

«Tanto per cominciare, non l’avrei portato qui» rispose Porta. «Avrei cercato il Marchese.»

Hunter piegò la testa da un lato. «Ti fidi di lui?» domandò, diretta, e Porta sapeva che si riferiva a de Carabas, non a Richard.

«Si» disse Porta. «Più o meno mi fido.»

Porta aveva compiuto cinque anni solo due giorni prima. Quella volta il mercato si teneva nei giardini di Kew, e suo padre l’aveva portata con sé come regalo di compleanno. Era il suo primo mercato.

Erano nella casa delle farfalle, circondati da ali dai colori sgargianti, cose iridescenti e impalpabili che l’avevano incantata e affascinata, quando suo padre si era accovacciato accanto a lei.

«Porta?» disse. «Voltati piano e guarda laggiù, vicino alla porta.

Si era voltata e aveva guardato. Un uomo di pelle scura che indossava un ampio soprabito, i lunghi capelli neri legati a coda di cavallo, era in piedi nei pressi della porta e parlava con due gemelli dalla pelle dorata, un ragazzo e una ragazza. La giovane donna stava piangendo, nella maniera in cui piangono i grandi, trattenendo le lacrime il più possibile e odiando il momento in cui, non riuscendo a frenarsi, diventano allo stesso tempo brutti e buffi a vedere.

Porta tornò a occuparsi delle farfalle.

«L’hai visto?» le chiese il padre.

Annui.

«Quello è il Marchese de Carabas» disse. «È un impostore e un imbroglione e probabilmente in parte anche un mostro. Se mai dovessi trovarti nei guai, va’ da lui. Ti proteggerà, ragazza mia. Deve farlo.»

E Porta lo guardò di nuovo. Teneva una mano sulla spalla di ognuno dei gemelli e li conduceva fuori dalla stanza; tuttavia, mentre se ne stava andando lanciò un ’occhiata al di sopra della propria spalla e le fece l’occhiolino.

I frati che le circondavano erano fantasmi scuri nella nebbia. Porta alzò la voce. «Scusa, fratello» gridò a fratello Fosco. «Il nostro amico, quello che è andato a prendere la chiave… se fallisce, a noi cosa succede?»

Il frate avanzò verso di loro.

«Vi scortiamo lontano da qui e vi lasciamo andare.»

«E Richard?» domandò.

Sotto il cappuccio poteva scorgerlo scuotere il capo con aria triste e definitiva.

«Avrei dovuto portare il Marchese» disse Porta, domandandosi dove fosse e cosa stesse facendo.

Il Marchese de Carabas stava per essere crocifisso su un’imponente struttura in legno a forma di X che mister Vandemar aveva messo insieme alla svelta utilizzando numerosi vecchi pallet, pezzi di sedia, un cancello di legno e quella che sembrava una ruota di carro. Aveva usato anche una grossa scatola di chiodi arrugginiti. Mister Vandemar, da una scala a pioli, si trascinava in giro l’intera costruzione.

«Un po’ più su» strillò mister Croup, che era rimasto a terra. «Più a sinistra. Si. Cosi. Incantevole.»

Era da molto tempo che non crocifiggevano qualcuno.

Braccia e gambe del Marchese de Carabas erano aperte a formare una grande X. Dei chiodi gli attraversavano le mani e i piedi, ed era anche legato con una fune intorno alla vita. Era, a tutti gli effetti, privo di conoscenza.

L’intera struttura ondeggiava nell’aria, appesa a grosse funi, in quella che un tempo era stata la caffetteria del personale ospedaliere.

Sul pavimento, mister Croup aveva raccolto una gran quantità di oggetti taglienti, che spaziavano da rasoi e coltelli da cucina a lancette e bisturi abbandonati, oltre a numerosissime cosette interessanti che mister Vandemar aveva trovato nell’ex reparto odontoiatrico. C’era persino un attizzatoio, proveniente dalla stanza della caldaia.

«Perché non vede come sta, mister Vandemar?» chiese.

Mister Vandemar allungò il martello che teneva in mano e ne piazzò la testa sotto al mento del Marchese, quindi glielo sollevò.

Gli occhi del Marchese tremolarono e si aprirono. Fece un bel respiro profondo e sputò un purpureo grumo di sangue in faccia a mister Vandemar.

«Cattivaccio» disse severamente mister Croup. In realtà, era piuttosto compiaciuto.

Il tiro a segno è molto più divertente quando il bersaglio è sveglio.

Il bollitore fumava con grande ardimento. Richard guardava l’acqua bollente e si domandava cosa avessero intenzione di farne. La sua immaginazione era in grado di fornire un numero infinito di risposte.

Nessuna delle quali risultò esatta.

L’acqua bollente venne riversata in una teiera, in cui fratello Caliginoso aggiunse tre cucchiai di foglie di tè. Attraverso un colino, il liquido che ne risultò fu versato dalla teiera in tre tazze di porcellana.

L’Abate sollevò la testa cieca, annusò l’aria, sorrise. «La prima parte della Prova della Chiave» disse «è una buona tazza di tè. Metti lo zucchero?»