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FALLA FINITA era uno di essi.

METTI FINE ALLE TUE SOFFERENZE.

SII UOMO — UCCIDITI.

PROCURATI UN INCIDENTE FATALE, OGGI.

Annuì. Stava parlando da solo. In realtà sui manifesti non c’erano quelle scritte. Si. Parlava con se stesso; ed era tempo che si ascoltasse.

Poteva sentire un treno, non molto distante, che si avvicinava alla stazione.

Strinse i denti e cominciò a dondolare avanti e indietro come stesse ancora ricevendo gli spintoni dei pendolari, anche se sulla banchina era solo.

Il treno si stava dirigendo verso di lui. In quel momento comprese che bastava davvero uno sforzo piccolissimo per mettere fine al dolore, per far si che il dolore sparisse per sempre.

Si ficcò le mani in tasca e fece un respiro profondo. Era cosi facile. Un momento di sofferenza, e tutto si sarebbe concluso e compiuto…

In una delle tasche c’era qualcosa. Lo sentiva con le dita: qualcosa di liscio e solido, approssimativamente sferico.

Lo estrasse: era una perlina di quarzo.

Allora si ricordò di averla raccolta da terra. Era stato dall’altra parte del Ponte della Notte. Si trattava di un pezzo della collana di Anestesia.

E da chissà dove, nella sua testa o fuori di essa, gli parve di sentire la ragazza-ratto che diceva, «Tieni duro, Richard!»

Annui e si rimise in tasca la perlina. Restò in piedi sulla banchina e aspettò che arrivasse il treno. Quello arrivò, rallentò e si fermò completamente.

Le porte del treno si aprirono con un sibilo.

Il vagone era pieno di morti; morti di tutti i tipi. C’erano cadaveri ancora caldi, con tagli grossolani alla gola e buchi di pallottola alla tempia. C’erano cadaveri vecchi e rinsecchiti. C’erano corpi coperti di ragnatele che si reggevano alle maniglie del treno, e esseri sciatti e cancerosi mollemente abbandonati nei relativi posti a sedere. Per quanto si poteva desumere, tutti i cadaveri sembravano essere defunti per mano propria.

C’erano corpi di uomini e corpi di donne.

A Richard pareva di avere già visto alcuni di quei visi, appesi a un lungo muro, ma non riusciva più a ricordare dove, né quando.

Il vagone puzzava come potrebbe puzzare un obitorio al termine di una lunga estate calda durante la quale il sistema di refrigerazione si fosse rotto definitivamente.

Richard non sapeva più chi era, non aveva idea di cosa fosse vero e cosa no, e nemmeno se era coraggioso o vigliacco, pazzo o sano di mente.

Però sapeva qual’era la successiva cosa da fare. Salire sul treno.

E a quel punto tutte le luci si spensero.

I chiavistelli vennero tirati di nuovo. Due sonori schiocchi echeggiarono nella stanza. La porta del minuscolo santuario si apri, lasciando entrare la luce delle lampade nel corridoio.

Era una piccola stanza con un alto soffitto a volta. Da un filo appeso nel punto più elevato del soffitto pendeva una chiave d’argento. Il soffio d’aria provocato dall’apertura della porta la fece oscillare avanti e indietro, quindi ruotare lentamente, prima da una parte, poi dall’altra.

L’Abate si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso e i due uomini entrarono nel santuario fianco a fianco. Poi l’Abate lasciò il braccio del fratello e disse: «Prendi il cadavere, fratello Caliginoso.»

«Ma, ma padre…»

«Cosa c’è?»

Fratello Caliginoso appoggiò un ginocchio a terra. L’Abate poteva udire le dita che sfioravano abiti e pelle. «Non è morto.»

L’Abate sospirò. Era un pensiero immorale, lo sapeva, ma sinceramente riteneva fosse molto più clemente farli morire subito. In questo modo era molto peggio. «Uno di quelli, eh?» disse. «Be’, ci occuperemo della povera creatura finché giungerà a ottenere la sua ricompensa finale. Portiamolo in infermeria.»

A quel punto una flebile voce disse, con grande calma, «Non sono… una povera creatura…»

L’Abate senti qualcuno alzarsi in piedi; senti il brusco respiro di fratello Caliginoso.

«Penso… penso di averla superata» disse, esitante, la voce di Richard Mayhew. «A meno che anche questo faccia parte della prova.»

«No, figliolo» lo rassicurò l’Abate.

Calò il silenzio. Poi Richard disse, «Io… io credo che adesso la gradirei quella tazza di tè, se per voi non è un problema.»

«Certo» disse l’Abate. «Da questa parte.»

Richard fissò il vecchio. Stava tremando. Gli occhi glauchi guardavano il nulla. Sembrava contento che Richard fosse vivo, ma…

«Scusi, signore» disse pieno di rispetto fratello Caliginoso, rivolto a Richard. «Non dimentichi la chiave.»

«Oh, si. Grazie.»

Si era dimenticato della chiave. Allungò la mano e la richiuse sulla chiave d’argento, che ruotava lentamente appesa alla corda. Tirò, e il filo si spezzò senza opporre resistenza.

Richard apri la mano e osservò la chiave che lo fissava dal suo palmo.

«Dipende dai miei denti irregolari» disse Richard, che ora ricordava. «Chi sono?»

La mise in tasca, accanto alla perlina di quarzo, e insieme lasciarono quel luogo.

La nebbia aveva cominciato a diradare. Hunter ne era lieta. Adesso era certa che, se fosse stato necessario, avrebbe potuto portar via Lady Porta ai frati senza che le succedesse nulla, cavandosela lei stessa solo con qualche ferita superficiale.

All’altro lato del ponte ci fu un movimento, carico di eccitazione.

«Succede qualcosa» disse Hunter a bassa voce. «Preparati a scappare.»

I frati si scostarono.

Richard, l’uomo del Mondo di Sopra, camminava nella nebbia, a fianco dell’Abate. Richard sembrava… Hunter lo esaminò attentamente per cercare di capire in cosa fosse cambiato. Il suo punto di equilibrio si era abbassato, era più centrato. No… non si trattava solo di quello. Sembrava…

Sembrava che fosse cresciuto.

«Ancora vivo?» chiese Hunter.

Richard annui, mise la mano in tasca e ne tolse una chiave d’argento. La lanciò a Porta, che la prese al volo, per poi correre verso di lui e mettergli le braccia al collo, stringendolo più forte che poteva.

Quindi Porta si staccò da Richard e andò dall’Abate. «Non so dirle quanto ciò significhi per noi» gli disse.

Lui sorrise, debolmente ma con dolcezza. «Possano Temple e Arch essere con tutti voi, nel vostro viaggio attraverso il Mondo di Sotto.»

Porta fece un inchino poi, tenendo la chiave stretta in mano, tornò da Richard e da Hunter.

I viaggiatori superarono il ponte.

I frati rimasero sul ponte finché i tre uscirono dal loro campo visivo, persi nella vecchia nebbia del mondo sotto il mondo.

«Abbiamo perduto la chiave» disse l’Abate. «Che Dio ci aiuti.»

TREDICI

L’Angelo Islington stava sognando un sogno oscuro e frenetico.

Onde immense si innalzavano e si infrangevano sulla città; il cielo era squarciato da orizzonte a orizzonte da lampi biforcuti; cadde la pioggia e la città tremò; accanto al grande anfiteatro scoppiarono i primi incendi. Islington li osservava dall’alto, librandosi nell’aria, come ci si libra nei sogni, come si era librato in quei giorni tanto lontani. In quella città c’erano edifici alti oltre trenta metri, ma a confronto delle verdi onde atlantiche parevano minuscoli.

Poi udì la gente gridare.

C’erano quattro milioni di persone ad Atlantide, e, nel sogno, Islington udiva ogni singola voce, chiara e distinta, mentre urlavano, soffocavano, bruciavano e morivano.

Le onde inghiottirono la città, e la tempesta si placò.

Al sorgere dell’alba, nulla indicava che là ci fosse mai stata una metropoli. Nulla tranne i corpi gonfi d’acqua di bambini, di donne e di uomini che galleggiavano sulle gelide onde del mattino; corpi su cui i gabbiani bianchi e grigi avevano già cominciato a infierire con i loro becchi crudeli.