Il ratto nero entrò nella tana dei Dorati con la testa bassa e le orecchie all’indietro in segno di deferenza. Strisciò in avanti, squittendo e schiattendo.
I Dorati si erano costruiti la tana in un cumulo di ossa. Tali ossa un tempo erano appartenute a un mammut peloso, e risalivano alle epoche glaciali quando le grandi bestie lanuginose percorrevano in lungo e in largo la tundra innevata dell’Inghilterra del sud come se, a detta dei Dorati, ne fossero i proprietari.
Quel mammut in particolare, quantomeno, era stato disilluso al riguardo in maniera piuttosto esauriente e decisamente definitiva da parte dei Dorati.
Alla base del cumulo di ossa, il ratto nero fece l’inchino, poi si sdraiò sulla schiena esponendo la gola, chiuse gli occhi e attese.
Dopo un po’ uno squittio dall’alto gli disse che poteva girarsi.
Uno dei Dorati strisciò fuori dal cranio del mammut, in cima alla catasta di ossa. Strisciò lungo la vecchia zanna d’avorio, un ratto dalla pelliccia dorata e gli occhi color rame, delle dimensioni di un grosso gatto domestico.
Il ratto nero parlò. Il Dorato ci pensò un attimo e sbraitò un ordine. Il ratto nero si rotolò sulla schiena, esponendo nuovamente la gola per un momento. Quindi una torsione e un dimenamento e aveva ripreso la sua strada.
Naturalmente, il Popolo delle Fogne esisteva già prima della Grande Puzza, e aveva vissuto nelle fognature del periodo elisabettiano, della Restaurazione e della Reggenza, quando un numero sempre maggiore di vie d’acqua londinesi veniva imbrigliato in tubazioni e passaggi coperti, quando la popolazione produceva quantità sempre maggiori di immondizia, di rifiuti, di effluenti. Fu dopo la Grande Puzza, però, dopo il grande progetto vittoriano di costruzione di fognature, che entrò in possesso di ciò a cui aveva diritto.
Se ne trovavano membri in ogni zona delle fogne, ma per le loro abitazioni permanenti avevano scelto alcuni degli ambienti a volta di mattoni rossi, simili a chiese, dell’area est, alla confluenza di molte delle ribollenti acque schiumose. Era là che si mettevano a sedere, tenendo accanto canne, reti e ami improvvisati, a osservare la superficie torbida dell’acqua.
Indossavano abiti — abiti verdi e marrone, coperti da uno spesso strato di quella che poteva essere muffa o una fanghiglia derivata da prodotti petroliferi, e poteva anche tranquillamente essere qualcosa di molto peggio. Portavano i capelli lunghi e aggrovigliati. Puzzavano più o meno come si può facilmente immaginare.
Lungo il tunnel erano appese vecchie lanterne a vento. Nessuno sapeva cosa il Popolo delle Fogne utilizzasse come combustibile, ma nelle loro lanterne ardeva una fiamma blu e verde piuttosto ripugnante.
Si ignorava in che modo quelle persone comunicassero tra loro. Nei pochi contatti con il mondo esterno usavano una sorta di linguaggio dei segni. Vivevano in un mondo di gorgoglii e sgocciolii, gli uomini, le donne e i silenziosi bambini delle fogne.
Dunnikin individuò qualcosa nell’acqua. Era il capo del Popolo delle Fogne, il più saggio e il più anziano. Conosceva le fogne meglio dei costruttori originali. Dunnikin prese una lunga rete per la pesca ai gamberetti; un abile movimento della mano, e aveva pescato un telefonino alquanto sporco. Camminò fino a un mucchietto di robaccia messo in un angolo, e aggiunse il telefono portatile al resto del bottino. Fino a quel momento il frutto di una giornata di lavoro consisteva in: due guanti spaiati, una scarpa, un cranio di gatto, una copia di Fiesta, un pacchetto di sigarette fradicio, una gamba artificiale, un cocker spaniel morto, un paio di corna di cervo (montate) e la metà inferiore di una carrozzina.
Non avevano fatto una buona pesca. E quella sera era sera di mercato.
Dunnikin continuava a tenere gli occhi sull’acqua. Non si sa mai cosa può saltar fuori.
Old Bailey stava stendendo il bucato ad asciugare. Sventolava e si gonfiava nel vento, sulla cima del Centre Point. A Old Bailey non importava molto del Centre Point in sé, ma, come spesso aveva spiegato agli uccelli, la vista dal tetto era incomparabile.
Il vento strappò alcune penne dal cappotto di Old Bailey e le soffiò via, lontano, sopra Londra. Non se ne curava. Come aveva spesso detto agli uccelli, nel posto da cui provenivano ce n’erano molte altre.
Un grosso ratto nero attraversò strisciando la copertura strappata di un cunicolo di ventilazione, si guardò intorno, quindi andò fino alla tenda chiazzata dagli uccelli. Risali il lato della tenda, poi percorse la fune da bucato di Old Bailey e gli squittì qualcosa con tono pressante.
«Piano, piano» disse Old Bailey. Il ratto ripeté quanto aveva detto con voce meno acuta e più lentamente. «Santo cielo!» disse Old Bailey.
Si precipitò nella tenda e tornò con le sue armi — il forchettone da barbecue e una pala per il carbone. Poi corse di nuovo nella tenda e ne usci con alcuni arnesi da barattare. Quindi rientrò nella tenda camminando, apri la cassapanca di legno e si mise in tasca la scatola d’argento.
«Proprio non ho tempo per queste scempiaggini» disse al ratto, una volta fatta l’ultima uscita dalla tenda. «Sono un uomo molto impegnato. Gli uccelli non si prendono da soli, sai?»
Il ratto squitti ancora.
Old Bailey stava slegando il rotolo di corda che portava alla cintola. «Be’,» disse al ratto «non sono l’unico che può prendere il corpo. Non sono più giovane come una volta. Non mi piacciono i luoghi sotterranei. Sono un uomo dei tetti, io, nato e cresciuto.»
Il ratto fece un rumore aspro.
«La gatta frettolosa fece i gattini ciechi!» replicò Old Bailey. «Sto andando. Giovane presuntuosello. Conoscevo il tuo bis-bisnonno, giovane amico-ratto, perciò non provare a darti tante arie… Allora, dov’è il mercato?»
Il ratto glielo disse. Poi Old Bailey si mise il ratto in tasca e scavalcò la facciata dell’edificio.
Seduto sulla sporgenza a lato della fognatura, nella sua poltroncina da giardino di plastica, Dunnikin era sopraffatto da un presentimento di ricchezza e prosperità. Sentiva che stava arrivando da ovest a est, proprio verso di loro.
Batté forte le mani. Altri uomini corsero da lui, e le donne e i bambini, e allo stesso tempo afferravano ami e reti. Si misero in fila lungo la sudicia sporgenza, nella crepitante luce verde della fognatura.
Dunnikin puntò il dito e aspettarono, in silenzio, perché è cosi che il Popolo delle Fogne aspetta.
Il corpo del Marchese de Carabas giunse galleggiando a faccia in giù lungo la fognatura, la corrente che lo portava con la lentezza e la solennità di un vascello funebre.
Lo trascinarono con gli ami e le reti, in silenzio, e ben presto lo adagiarono sulla sporgenza. Gli tolsero il soprabito, gli stivali e il contenuto delle tasche del soprabito, ma il resto degli indumenti venne lasciato sul cadavere.
«Sei sicura che il Marchese verrà al mercato?» Richard domandò a Porta, mentre il sentiero cominciava, lentamente, a salire.
«Non ci pianterebbe mai in asso» rispose, con tutta la baldanza che riusciva a mostrare. «Sono certa che verrà.»
QUATTORDICI
La nave di Sua Maestà battezzata Belfast è un incrociatore di 11.000 tonnellate, commissionato nel 1939 e in servizio attivo durante la seconda guerra mondiale. Terminato il conflitto, è stato ormeggiato alla sponda sud del Tamigi, in zona cartoline, tra Tower Bridge e London Bridge, di fronte alla Torre di Londra. Da li si possono vedere la cattedrale di St Paul e il monumento al grande incendio eretto da Cristopher Wren. Viene utilizzato come museo galleggiante, come monumento alla memoria e come campo di addestramento.
Una passerella collegava la nave alla riva, e su quella passerella c’era un grande andirivieni di persone che salivano e scendevano a due e a tre per volta, poi a decine. Tutte le tribù di Londra Sotto posizionavano le bancarelle il prima possibile, unite dall’Armistizio del Mercato e dal desiderio comune di sistemare le loro cose quanto più lontano si riesce dal banco del Popolo delle Fogne.