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«Nessuna Bestia, però» disse Richard.

«Non a quel tempo.»

Richard esitò. Il ruggito lontano si fece udire di nuovo. «Io… io credo di avere sognato della Bestia» disse.

Il Marchese inarcò un sopracciglio. «In che tipo di sogni?»

«Brutti» rispose Richard.

Il Marchese ci pensò sopra, gli occhi che guizzavano. Poi disse, «Senti, Richard, io porto Hunter. Se tu vuoi aspettare, be’, nessuno ti accuserà di codardia.»

Richard scosse il capo. A volte non hai alternative. «Non torno sui miei passi. Non ora. Hanno preso Porta.»

«D’accordo» disse il Marchese. «Bene, allora. Andiamo?»

Le perfette labbra di zucchero caramellato di Hunter si contorsero in un ghigno. «Dovete essere pazzi per andare là dentro» disse. «Senza il pegno dell’angelo non riuscirete mai a trovare la strada. Non supererete mai il cinghiale.»

Il Marchese infilò la mano sotto la coperta poncho e ne estrasse la statuina di ossidiana presa nello studio del padre di Porta. «Intendi uno di questi?» domandò.

In quel momento il Marchese pensò che molto di quello che aveva passato la settimana precedente era compensato dall’espressione sul viso di Hunter. Superarono il cancello, entrando nel labirinto.

Porta aveva le mani legate dietro la schiena e mister Vandemar la spingeva avanti appoggiandole una manona sulla spalla. Mister Croup li precedeva a passi rapidi, tenendo ben alto e visibile il talismano di ossidiana preso alla ragazza, e scrutava nervosamente da una parte e dall’altra, come una donnola sul punto di razziare un pollaio.

Il labirinto in sé era follia pura. Era costruito di frammenti dispersi di Londra Sopra: vicoli, strade, corridoi e fognature caduti nelle fenditure nel corso dei millenni e entrati a far parte del mondo del perduto e del dimenticato.

Camminavano sui ciottoli e nel fango, nello sterco (sterco di cavallo e non solo) e su assi di legno marcio. Era un luogo in perenne trasformazione, e ogni sentiero si divideva, girava e si ripiegava su se stesso.

Mister Croup senti lo strattone del talismano e lasciò che lo portasse dove voleva.

Stavano percorrendo un minuscolo passaggio che un tempo aveva fatto parte di una «rookery» vittoriana (dei bassifondi composti in parti uguali di furto e gin, squallore da due soldi e sesso da tre), quando la udirono tirar su col naso e sbuffare da qualche parte, vicino. Poi ruggì.

Mister Croup esitò. In fondo al vicolo si fermò e si guardò intorno di sottecchi, prima di fare strada agli altri scendendo qualche gradino che portava a un lungo tunnel di pietra che una volta, all’epoca dei Templari, correva attraverso delle paludi, le Fleet Marshes.

«Hai paura, vero?» gli disse Porta.

Lui la guardò in cagnesco. «Tieni la lingua a posto.»

Lei sorrise, anche se di sorridere proprio non aveva voglia. «Hai il terrore che il tuo talismano salvacondotto non ti permetta di superare la Bestia. Cosa stai progettando? Di rapire Islington? Di venderci entrambi al migliore offerente?»

«Zitta» disse mister Vandemar.

Ma mister Croup si limitò a ridacchiare sotto i baffi, e in quel momento Porta seppe che l’Angelo Islington non era suo amico.

Allora cominciò a gridare. «Ehi! Bestia! Siamo qui! Iuu-huu! Signora Bestia!»

Mister Vandemar le diede uno schiaffo sulla testa e la sbatté contro il muro.

«Ti avevo detto di stare zitta» disse, dolcemente.

Sentiva in bocca il sapore del sangue e sputò rosso sul fango. Quindi apri la bocca per mettersi di nuovo a strillare. Mister Vandemar, anticipando la mossa, si era tolto di tasca un fazzoletto e glielo ficcò tra i denti. Lei cercò di mordergli un dito, ma la cosa non lo impressionò per niente.

«Adesso starai zitta» le disse.

Mister Vandemar era molto orgoglioso del suo fazzoletto, che era macchiato di verde, nero e marrone, e in origine, negli anni Venti, era appartenuto a un venditore di tabacco da fiuto alquanto sovrappeso morto di infarto e sepolto con il fazzoletto nel taschino. Ogni tanto mister Vandemar ci trovava ancora sopra qualche frammento di mercante di tabacco, ma ciò nonostante secondo mister Vandemar era comunque un bel fazzoletto.

Continuarono in silenzio.

Nel suo salone alla fine del labirinto, che era la sua cittadella e la sua prigione, l’Angelo Islington stava facendo una cosa che non faceva da molte migliaia di anni.

Ecco cosa stava facendo.

Cantava.

Aveva una voce bellissima, melodiosa e dolce. Come tutti gli angeli era perfettamente intonato.

Islington stava cantando una canzone di Irving Berlin. E mentre cantava, ballava, con movimenti e passi lenti e impeccabili, nel suo Gran Salone pieno di candele.

Heaven, cantava l’angelo, I’m in Heaven son felice al punto che non lo so dir perché ciò che voglio riuscirò ad aver se ballando manterrò il mio savoir-faire. Heaven, I’m in Heaven, e i problemi spariranno tutti in fretta quando avrò ottenuto il posto che mi spetta…

Smise di danzare quando raggiunse la porta nera nella sua stanza, la porta fatta di silice e argento annerito. Con infinita lentezza fece scorrere le dita lungo la porta, appoggiando la guancia sulla superficie gelida.

Poi continuò, più pacatamente, a cantare.

Heaven… I’m in Heaven… I’m in Heaven… I’m in Heaven…

Quindi sorrise, dolcemente e teneramente, e il sorriso dell’Angelo Islington era una cosa terribile a vedersi.

Pronunciò le parole, ripetendole tra sé e sé, le sillabe sospese nell’aria dell’oscurità della sua stanza illuminata dalle candele.

«I’m in Heaven, sono in Paradiso» disse.

Richard stava aggiungendo un’altra annotazione al suo diario mentale. Caro Diario, pensava. Oggi sono sopravvissuto alla passeggiata sulla passerella, al bacio della morte e a una lezione sui calci.

Proprio in questo momento sto attraversando un labirinto con un pazzo bastardo che è risuscitato dalla morte e una guardia del corpo che si è rivelata essere una… qualunque cosa sia l’opposto di una guardia del corpo. Sono in acque talmente profonde per le mie possibilità che…

Gli sfuggi la metafora.

Stavano procedendo a fatica per uno stretto passaggio di terra bagnata e paludosa in mezzo a scuri muri di pietra.

Il Marchese portava sia il lasciapassare sia la balestra, e camminava tre metri dietro a Hunter.

Richard teneva la lancia e una torcia gialla che illuminava i muri e il fango. Camminava davanti a Hunter, ma a debita distanza. La palude puzzava, e grosse zanzare avevano cominciato a mordere Richard sulle braccia, sulle gambe e sul viso. Fino a quel momento né Hunter né il Marchese avevano minimamente menzionato le zanzare. Richard cominciava a sospettare che si fossero persi.

E il suo umore non veniva per nulla risollevato dal fatto che qui e là nella palude ci fossero dei morti: corpi coriacei ben conservati, ossa di scheletri e pallidi cadaveri. Si chiedeva da quanto fossero li, e se fossero stati uccisi dalla Bestia o dalle zanzare.

Lasciò passare altri cinque minuti e nove punture di zanzara, poi gridò, «Credo che ci siamo persi. Da qui siamo già passati.»

Il Marchese alzò il talismano. «No. Va tutto bene» disse. «Il pegno ci sta portando dritti alla meta. Cosetta intelligente.»

«Già» disse Richard ben poco impressionato. «Molto intelligente.»

Fu allora che il Marchese mise il piede nudo sulla gabbia toracica frantumata di un cadavere semi sepolto, che gli perforò il calcagno e lo fece inciampare. La statuina nera volò in aria e con un gran tonfo cadde nella palude. Il Marchese si rialzò e puntò la balestra alla schiena di Hunter. Al tallone destro provava una dolorosa sensazione di calore: si augurava di non essersi procurato un taglio profondo. Aveva già troppo poco sangue per potersi permettere di perderne altro.