E allora non ci fu più nessuno.
DICIOTTO
Lady Serpentine che, escludendo Olympia, era la maggiore delle Sette Sorelle, camminava lungo il labirinto, gli stivali bianchi che sguazzavano nel fango. Da oltre un centinaio di anni non si allontanava tanto da casa. Il suo maggiordomo dal vitino di vespa, vestita dalla testa ai piedi di pelle nera, procedeva davanti a lei reggendo una grossa lanterna da carrozza. Altre due donne vestite in modo simile la seguivano a rispettosa distanza.
Lo strascico di pizzo strappato dell’abito di Serpentine strisciava nel pantano, ma lei non ci badava. Alla luce della lanterna scorse qualcosa di scintillante e, accanto a quel qualcosa, una sagoma voluminosa.
«Eccola» disse.
Le due donne che la seguivano si affrettarono a correre avanti, nella palude, e all’avvicinarsi della donna con la lampada le ombre si trasformarono in oggetti. Il baluginio proveniva da una lunga lancia di bronzo. Il corpo di Hunter, freddo e in condizioni pietose, giaceva sulla schiena, semi sepolto sotto il cadavere di un enorme animale. Aveva gli occhi chiusi.
Le donne di Serpentine estrassero il corpo da sotto la Bestia e lo adagiarono nel fango.
Serpentine si inginocchiò nel pantano e fece scorrere un dito lungo la guancia gelida di Hunter, fino a sfiorare le labbra nere di sangue. Li indugiò qualche istante, poi si alzò.
«Prendete la lancia» disse.
Una delle donne sollevò il corpo di Hunter, l’altra strappò la lancia dalla carcassa della Bestia e se la mise in spalla.
Quindi le quattro figure si voltarono e ripercorsero la strada da cui erano venute; una processione silenziosa nelle profondità sotto il mondo.
Mentre camminavano, la luce della lanterna tremolava sul viso devastato di Serpentine, che però non rivelava alcuna emozione, né felicità né tristezza.
DICIANNOVE
Per un momento non avrebbe proprio saputo dire chi era. Si trattava di una sensazione estremamente liberatoria, quasi avesse la possibilità di essere qualunque cosa desiderasse: chiunque in assoluto — provare nuove identità. Poteva essere un uomo o una donna, un ratto o un uccello, un mostro o un dio.
Poi qualcuno produsse un fruscio, e si svegliò senza avere terminato l’elenco. Era Richard Mayhew, chiunque egli fosse, qualunque cosa ciò significasse.
Era Richard Mayhew e non sapeva dove si trovava. Il suo viso premeva contro del ruvido lino, e aveva male dappertutto. In alcuni punti — il mignolo della mano sinistra, per esempio — più che in altri.
Vicino a lui c’era qualcuno. Sentiva respirare.
Sollevò la testa, e nel farlo scopri altri punti dolenti. Alcuni dolevano molto, molto forte.
Lontano — a camere e camere di distanza — delle persone cantavano. Il suono era cosi sfocato e sommesso che sapeva che l’avrebbe perduto se avesse aperto gli occhi: un salmodiare profondo e melodioso…
Aprì gli occhi. La stanza era piccola e scarsamente illuminata. Si trovava su un letto basso e il fruscio che aveva udito era prodotto da una figura incappucciata vestita di nero che gli dava le spalle. L’individuo stava spolverando la stanza con un piumino dai colori accesi e bizarri.
«Dove sono?» chiese Richard.
La figura in nero si voltò, rivelando un volto magro, molto nervoso e di un color bruno intenso. «Vuole dell’acqua?» domandò, come uno a cui è stato spiegato che se il paziente dovesse svegliarsi bisogna chiedergli se vuole dell’acqua e che negli ultimi venti minuti si è ripetuto in continuazione la frase, per essere certo di non dimenticarsene.
«Io…» e Richard si rese conto di avere una sete terribile. Si mise a sedere sul letto. «Si, per favore. Grazie mille.»
Da una caraffa di metallo il frate versò un po’ d’acqua in una malconcia tazza, sempre di metallo, che passò a Richard. Lui sorseggiò con lentezza, resistendo all’impulso di inghiottirla tutta in una volta. Era fresca e cristallina, come di sorgente.
Richard abbassò lo sguardo. I suoi abiti erano spariti. Era stato vestito con qualcosa di lungo, simile al saio dei Frati Neri ma grigio. Il dito rotto era stato steccato e bendato con cura.
Si portò un dito all’orecchio, su cui c’era un cerotto appiccicoso. Sotto il cerotto, quelli che al tatto sembravano punti.
«Sei uno dei Frati Neri?» disse Richard.
«Si, signore.»
«Come sono arrivato qui? Dove sono i miei amici?»
Il frate indicò il corridoio, senza pronunciare parola e con aria nervosa.
Richard scese dal letto. Controllò sotto la veste grigia: era nudo. Petto e gambe erano coperti da innumerevoli lividi violacei, che sembravano essere stati trattati con un unguento non meglio identificato: odorava di sciroppo per la tosse e toast imburrato. Aveva un ginocchio bendato. Si chiedeva dove fossero andati a finire i suoi abiti. Accanto al letto c’erano dei sandali, e se li infilò. Quindi usci dalla stanza.
Nel corridoio vide l’Abate che si stava dirigendo verso di lui, gli occhi ciechi di un bianco perlaceo nell’oscurità al di sotto del cappuccio. Si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso.
«Allora sei sveglio, Richard Mayhew» disse l’Abate. «Come ti senti?»
Richard fece una smorfia. «La mano…»
«Ti abbiamo sistemato il dito. Era rotto. Ti abbiamo curato tagli e lividi. Poi avevi bisogno di riposo, che ti abbiamo procurato.»
«Dov’è Porta? E il Marchese? Come siamo arrivati qui?»
«Vi ho portato qui io» disse l’Abate. I due frati iniziarono a camminare lungo il corridoio, e Richard camminava con loro.
«Hunter» disse Richard. «Avete recuperato il suo corpo?»
L’Abate scosse il capo. «Non c’era alcun corpo. Solo la Bestia.»
«Ah, hmm. I miei vestiti…»
Giunsero alla porta di una cella, molto simile a quella in cui Richard si era svegliato. Porta se ne stava seduta sul bordo del letto, leggendo una copia di Mansfìeld Park che Richard era certo i frati non avessero mai saputo di possedere. Anche la ragazza indossava un saio grigio dei monaci. Era infinitamente troppo grande per lei, in modo quasi comico. Quando entrarono alzò la testa. «Ciao» disse. «Hai dormito per secoli! Come ti senti?»
«Bene, credo. E tu?»
Lei sorrise, ma non era un sorriso molto convincente. «Un po’ debole» disse.
Nel corridoio si udì uno sferragliare. Richard si voltò e vide il Marchese de Carabas che arrivava verso di loro a bordo di una vecchia e traballante poltrona a rotelle spinta da un Frate Nero grande e grosso. Si chiese come il Marchese riuscisse a far sembrare una romantica smargiassata anche il fatto di essere spinto su una sedia a rotelle.
Il Marchese li onorò di un immenso sorriso.
«Buona sera a lor signori… e signora» disse.
«Bene» commentò l’Abate. «Ci siete tutti. Dobbiamo parlare.»
Li condusse in una stanza molto ampia, riscaldata da un crepitante fuoco di eterogenei frammenti di legno. Si disposero intorno a un tavolo. Con un gesto, l’Abate li invitò a mettersi a sedere, e lui stesso cercò la sua sedia con la mano e si accomodò. Poi mandò fuori dalla stanza fratello Caliginoso e fratello Tenebre (che era colui che spingeva la poltrona a rotelle del Marchese).
«Dunque» disse l’Abate «al lavoro. Dov’è Islington?»
Porta si strinse nelle spalle. «Nel luogo più lontano in cui sono riuscita a mandarlo. A metà strada nello spazio-tempo.»
«Capisco» disse l’Abate. Quindi aggiunse, «Bene.»
«Perché non ci avete messi in guardia contro di lui?» chiese Richard.
«Non era compito nostro.»
«Allora,» disse Richard «adesso cosa succede?»