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Case si svegliò da un sogno di aeroporti, di cuoio scuro di Molly che si muoveva davanti a lui negli immensi atrii di Orly, Narita, Schipol… Osservò se stesso che comprava una fiaschetta piatta di plastica piena di vodka danese a un chiosco, un’ora prima dell’alba.

Da qualche parte giù nelle radici di ferrocemento dello Sprawl, un treno stava spingendo una colonna d’aria rancida lungo una galleria. Il treno era silenzioso, planava sui suoi cuscini a induzione, ma l’aria smossa faceva cantare la galleria nella gamma dei subsonici più bassi. La vibrazione raggiunse la stanza dove era steso Case e sollevò la polvere dalle crepe del parquet troppo asciutto.

Quando aprì gli occhi vide Molly nuda appena fuori della sua portata, dall’altra parte d’una distesa rosa di gommapiuma termica nuova di zecca. In alto la luce del sole filtrava attraverso la griglia fuligginosa di un lucernario. Mezzo metro quadrato di vetro era stato sostituito da un pannello di truciolato da cui spuntava un grosso cavo grigio che finiva penzolante a pochi centimetri dal pavimento. Case era steso sul fianco e l’osservava respirare. Guardava i suoi seni, la curva d’un fianco dal profilo funzionale ed elegante come la fusoliera d’un aereo da combattimento. Quel corpo era asciutto, essenziale, con i muscoli da ballerina classica.

La stanza era grande. Si drizzò a sedere. Era vuota, a parte l’ampia superficie rosa del letto e due borse di nylon, nuove e identiche, che giacevano poco lontane. Le pareti spoglie, nessuna finestra, una singola uscita di sicurezza in acciaio dipinto di bianco. Le pareti erano rivestite d’innumerevoli strati di acrilico bianco. Gli interni d’una fabbrica. Lui conosceva quel tipo di locale, quel tipo di edificio: gli inquilini erano gente che operava nell’interzona in cui l’arte non era del tutto un crimine, e un crimine non del tutto un’arte.

Era a casa.

Si rigirò e appoggiò i piedi sul pavimento. Era una sorta di parquet, ma alcuni elementi mancavano, altri erano sconnessi. La testa gli faceva male. Ricordò Amsterdam, un’altra stanza, nella Città Vecchia, edifici antichi di secoli. Molly appena tornata dal canale con del succo d’arancia e delle uova. Armitage che se n’era andato per una delle sue misteriose scorrerie, loro due che camminavano soli oltre il Dam fino a un bar che lei conosceva, in una delle strade di Damrak. Parigi era un sogno confuso. Compere, Molly l’aveva accompagnato a far compere.

Si alzò e s’infilò un paio di jeans neri nuovi e spiegazzati abbandonati ai suoi piedi, poi s’inginocchiò accanto alle borse. La prima che aprì era quella di Molly: indumenti piegati in bell’ordine e oggettini dall’aria costosa. La seconda era piena zeppa di cose che non ricordava di aver comprato: libri, nastri, un deck da simstim, abiti con etichette francesi e italiane. Sotto una maglietta verde scoprì un pacchetto piatto avvolto in un origami di carta giapponese riciclata.

La carta si lacerò quando lo raccolse: una scintillante stella a nove punte ne cadde… piantandosi dritta in una crepa del parquet.

— Un ricordino — spiegò Molly. — Ho notato che continuavi a guardarle. — Quando Case si voltò la vide seduta a gambe incrociate sul letto mentre si grattava assonnata lo stomaco con le unghie color borgogna.

— Più tardi passerà qualcuno a rendere sicuro questo posto — disse Armitage. Era fermo sulla soglia con in mano un’antiquata chiave magnetica. Molly stava preparando il caffè su un minuscolo fornelletto tedesco che aveva tirato fuori dalla borsa.

— Posso pensarci io — dichiarò Molly. — Ho già abbastanza apparecchiature. Infrascanner perimetrali, allarmi vocalizzanti…

— No — ribadì Armitage, chiudendo la porta. — Lo voglio impenetrabile.

— Fai come ti pare. — Molly indossava una maglietta scura a rete, infilata dentro larghi pantaloni neri di cotone.

— È mai stato nella polizia, signor Armitage? — chiese Case, seduto con la schiena appoggiata alla parete.

Armitage non era più alto di Case, ma con le sue spalle ampie e il portamento militare pareva riempire il vano della porta. Indossava un vestito italiano scuro, e nella mano destra reggeva una valigetta di morbido vitello nero. L’orecchino dei reparti speciali era sparito. I tratti di quel volto fascinoso e inespressivo offrivano la bellezza standard delle boutique cosmetiche, un amalgama tradizionale dei volti più importanti comparsi sui media durante l’ultimo decennio. Il pallido bagliore degli occhi accentuava l’effetto maschera. Case cominciò a pentirsi di aver fatto quella domanda.

— Insomma, un bel po’ di ragazzi dei reparti hanno finito per fare i poliziotti. Oppure sono approdati alla sicurezza delle grosse società — aggiunse Case a disagio. Molly gli porse una tazza di caffè fumante. — Quell’intervento che gli ha fatto fare sul mio pancreas è tipico dei poliziotti.

Armitage chiuse la porta, attraversò la stanza e si fermò dritto davanti a Case. — Sei un ragazzo fortunato, Case… Dovresti ringraziarmi.

— Davvero? — Case soffiò rumorosamente sul suo caffè.

— Avevi bisogno di un nuovo pancreas. Quello che abbiamo comprato ti affranca da una pericolosa dipendenza.

— Grazie, ma quella dipendenza me la godevo.

— Meglio per te, visto che adesso ne hai una nuova.

— Come sarebbe? — Case sollevò lo sguardo dal suo caffè. Armitage sorrideva.

— Hai quindici sacche di tossine legate all’endotelio di varie arterie principali, Case. Si stanno dissolvendo. Molto lentamente, ma si stanno senz’altro liquefacendo. Ognuna contiene una micotossina. Conosci già gli effetti di quella micotossina. È quella che i tuoi ex datori di lavoro ti hanno dato a Memphis.

Case sollevò lo sguardo su quella maschera sorridente sbattendo gli occhi.

— Hai il tempo di fare ciò per cui ti ho assoldato, Case, ma è tutto. Se fai il lavoro, poi io posso iniettarti un enzima che scioglierà i legami senza aprire le sacche. Poi avrai bisogno di un ricambio di sangue. Altrimenti le sacche si scioglieranno e finirai di nuovo dove ti ho trovato. Così, come vedi, Case, hai bisogno di noi. Hai bisogno di noi almeno quanto ne avevi quando ti abbiamo tirato su dalla fogna.

Case guardò Molly. La donna scrollò le spalle.

— Adesso scendi con il montacarichi e porta su le casse che troverai di sotto. — Armitage gli porse la chiave magnetica. — Vai. Sarà uno spasso, Case. Come la mattina di Natale.

Estate nello Sprawl, le folle lungo il passeggio che ondeggiavano come erba smossa dal vento, un campo di carne screziato da improvvisi mulinelli di bisogni e gratificazioni.

Era seduto accanto a Molly alla luce filtrata del sole sul bordo di una fontana asciutta di cemento, lasciando che l’interminabile fiume di facce ricapitolasse gli stadi della sua vita. Prima un bambino con gli occhi socchiusi, un ragazzo di strada, le mani rilassate e pronte ai fianchi, poi il volto liscio ed enigmatico di un adolescente sotto gli occhiali rossi. Case ricordava di essersi battuto su un tetto a diciassette anni, un combattimento silenzioso al roseo bagliore dei geodesici dell’alba.

Si spostò sul cemento, sentendolo ruvido e fresco attraverso il denim nero e sottile dei calzoni. Qui non c’era niente di simile alla danza elettrica di Ninsei. Questo era un commercio diverso, un ritmo diverso, nell’odore dei fast food, dei profumi e del sudore fresco dell’estate.