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— Pantere Moderne — disse rivolto all’Hosaka, togliendosi gli elettrodi. — Riassunto di cinque minuti.

— Pronto — fece il computer.

Non era un nome noto. Qualcosa di nuovo, qualcosa che era spuntato dopo l’ultima volta che era stato a Chiba. Le mode spazzavano la gioventù dello Sprawl alla velocità della luce, intere sottoculture potevano nascere in una notte, prosperare per una decina di settimane per poi scomparire del tutto. — Vai — disse. L’Hosaka aveva consultato la rete di biblioteche, riviste e notiziari.

Il riassunto iniziò con un’immagine fissa a colori che dapprima Case pensò fosse un collage di qualche tipo, la faccia di un ragazzo ritagliata da un’altra immagine e incollata sulla fotografia di una parete imbrattata di scritte. Occhi scuri, pieghe epicantiche, ovviamente il risultato di un intervento chirurgico, una rabbiosa spolverata di acne sulle guance pallide e scavate. L’Hosaka sganciò il fermo-immagine: il ragazzo si mosse, scivolando con la grazia sinistra di un mimo che finge di essere un predatore della giungla. Il suo corpo era quasi invisibile, un disegno astratto che imitava il muro imbrattato e slittava senza sforzo sul suo monoindumento attillatissimo. Policarburo mimetico.

Dissolvenza, di scena la dottoressa Virginia Rambali, sociologa, NYU, con nome, facoltà e ateneo che pulsavano attraverso lo schermo in alfanumerici rosa.

— Vista la loro tendenza ad atti casuali di surreale violenza, potrebbe essere difficile per i nostri spettatori capire come mai lei continui a insistere che questo fenomeno non è una forma di terrorismo — disse qualcuno.

La dottoressa Rambali sorrise. — C’è sempre un punto in cui il terrorista cessa di manipolare la gestalt dei media. Un punto oltre il quale la violenza potrebbe benissimo aumentare, ma oltre il quale il terrorista è diventato sintomatico della stessa gestalt dei media. Il terrorismo, come solitamente lo concepiamo noi, è correlato ai media in modo congenito. Le Pantere Moderne differiscono dagli altri terroristi proprio nel loro livello di consapevolezza, nella loro coscienza della misura in cui i media dissociano l’atto terroristico dall’originario intento sociopolitico…

— Salta — ordinò Case.

Case incontrò il suo primo Moderno due giorni dopo aver scorso il resoconto dell’Hosaka. I Moderni, decise, erano una versione contemporanea dei Grandi Scienziati della sua tarda adolescenza. C’era una specie di adolescenziale DNA fantasma all’opera nello Sprawl, qualcosa che recava in sé i precetti codificati di varie sottoculture effimere, replicandole a intervalli irregolari. Le Pantere Moderne erano una variante informatizzata degli scienziati. Se quella tecnologia fosse stata disponibile, i Grandi Scienziati avrebbero avuto tutti delle prese imbottite di microsoftware. Era lo stile che contava, e lo stile era lo stesso. I Moderni erano mercenari, burloni, tecnofeticisti nichilisti.

Quello che si presentò alla porta del loft con una scatola di dischetti da parte di Finn era un ragazzo dalla voce melliflua, Angelo. Il suo volto era un semplice innesto cresciuto su collagene e polisaccaridi di cartilagine di squalo, liscio e orrido. Era uno dei lavori di chirurgia elettiva più sgradevoli che Case avesse mai visto. Quando Angelo sorrise, rivelando i canini affilati come rasoi di qualche grosso animale da preda, Case si sentì addirittura sollevato. Germogli di dente trapiantati: l’aveva visto altre volte.

— Non puoi lasciarti battere dal gap generazionale di questi piccoli coglioni — disse Molly. Case annuì, assorto negli schemi dell’ice della Senso/Rete.

Era questo… Sì, ecco ciò che era, chi era, ecco il suo essere. Si dimenticò persino di mangiare. Molly lasciava contenitori di riso e vassoi di plastica pieni di sushi su un angolo del lungo tavolo. Talvolta l’irritava perfino il fatto di essere costretto a lasciare il terminale per usare la toilette chimica che avevano piazzato in un angolo del loft. Gli schemi dell’ice si formavano e riformavano sullo schermo mentre lui sondava il terreno in cerca di brecce, evitando le trappole più ovvie e tracciando una mappa del percorso che avrebbe seguito attraverso l’ice della Senso/Rete. Era un buon ice. Un ice magnifico. I suoi schemi ardevano mentre lui giaceva con il braccio sotto le spalle di Molly, ammirando l’alba rossa attraverso la griglia d’acciaio del lucernario. Quel labirintico arcobaleno di pixel era la prima cosa che vedeva quando si svegliava. Andava dritto al terminale senza preoccuparsi di vestirsi e si collegava. Stava tagliando la rete, apriva varchi, la penetrava. Stava lavorando, insomma. Perse il conto dei giorni.

E talvolta, nell’addormentarsi, in particolare quando Molly era uscita per una delle sue scorribande esplorative insieme a una squadra di Moderni che aveva assoldato, immagini di Chiba tornavano a rifluire nella sua mente. Volti e neon di Ninsei. Una volta si svegliò da un sogno confuso di Linda Lee, incapace di ricordare chi era o cosa avesse significato per lui. Quando finalmente se ne ricordò, si collegò e lavorò per nove ore filate.

La penetrazione completa nella Senso/Rete richiese un totale di nove giorni.

— Avevo detto una settimana — rilevò Armitage, incapace di nascondere la soddisfazione quando Case gli fece vedere i suoi piani per l’incursione. — Te la sei presa comoda.

— Balle — ribatté Case, sorridendo allo schermo. — Questo è un ottimo lavoro, Armitage.

— Sì — ammise l’altro. — Ma non montarti la testa. In confronto a ciò che dovrai affrontare alla fine, questo è un gioco da ragazzini.

— Ti amo, Mamma Gatta — bisbigliò il collegamento delle Pantere Moderne. La sua voce era come una scarica elettrostatica modulata nella cuffia di Case. — Atlanta, Brood. Pare pronto. Via, ricevuto. — La voce di Molly era leggermente più chiara.

— Udire è ubbidire. — I Moderni stavano usando una specie di antenna parabolica fatta con una leggera rete a maglie esagonali, sita nel New Jersey, per far rimbalzare i segnali crittati dal satellite dei Figli di Cristo Re in orbita geosincrona sopra Manhattan. Avevano deciso di considerare l’intera operazione come una specie di burla complicata, e pareva che la loro scelta del satellite per telecomunicazioni fosse stata ponderata. I segnali di Molly venivano irradiati verso l’alto da una sorta di ombrello epossidico largo un metro fino al tetto di una torre di vetro nero di una banca, alta quasi quanto il palazzo della Senso/Rete.

Atlanta: il codice di identificazione era semplice. Da Atlanta a Boston a Chicago a Denver, cinque minuti per ogni città. Se qualcuno fosse riuscito a intercettare il segnale di Molly, a decodificarlo, a sintetizzare la sua voce, il codice avrebbe avvertito i Moderni. Se Molly fosse rimasta nell’edificio per più di venti minuti, era alquanto improbabile che ne sarebbe mai uscita.

Case trangugiò l’ultimo sorso del suo caffè, sistemò i dermatrodi e si grattò il petto sotto la maglietta nera. Aveva soltanto una vaga idea di ciò che le Pantere Moderne avevano progettato per distogliere l’attenzione della sorveglianza della Senso/Rete. Il suo lavoro consisteva nell’accertarsi che il programma d’intrusione che aveva elaborato si collegasse con i sistemi della Senso/Rete quando Molly ne avesse avuto bisogno. Seguì il conto alla rovescia nell’angolo dello schermo. Due. Uno.

Case s’innestò e attivò il suo programma. — Linea principale — sussurrò l’uomo di collegamento, e la sua voce fu l’unico suono mentre Case si tuffava attraverso gli strati lucenti dell’ice della Senso/Rete. Controlla Molly… Accese il simstim ed entrò nel suo sensorio.

L’antintrusore offuscò leggermente il suo input visivo. Molly si trovava davanti a una parete a specchio chiazzata d’oro nel vasto atrio bianco dell’edificio, intenta a masticare una gomma, in apparenza affascinata dal proprio riflesso. A parte l’enorme paio di occhiali da sole che nascondeva i suoi innesti, riusciva incredibilmente a dare l’impressione di sentirsi a suo agio in quel posto, un’altra giovane turista che sperava di riuscire a intravedere Tally Isham. Indossava un impermeabile di plastica rosa, una camicetta bianca di maglia, calzoni bianchi sformati di un taglio che era stato di moda a Tokyo l’anno prima. Se ne uscì in un sorriso vacuo e fece scoppiare un palloncino di gomma. A Case venne quasi da ridere. Sentiva il nastro a micropori applicato sulla gabbia toracica di Molly, sentiva le piccole unità piatte subito sotto, la radio, l’unità simstim e lo scrambler. Il microfonino applicato al collo assomigliava il più possibile a un disco dermico analgesico. Le mani, nelle tasche del soprabito rosa, si flettevano sistematicamente in una serie di esercizi tensione-rilascio. Gli ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che la bizzarra sensazione alle punte delle dita era causata dalle lame che venivano in parte sfoderate e poi richiamate.