Oltre la coperta militare, Finn li aspettava al tavolo bianco.
Molly cominciò a lanciare segnali concitati, tirò fuori un pezzo di carta, ci scrisse sopra qualcosa e lo passò a Finn. Questi lo prese tra il pollice e l’indice, tenendolo lontano manco fosse sul punto di esplodere, e fece un segno che Case non conosceva, un gesto che trasmetteva un misto d’impazienza e di cupa rassegnazione. Si alzò in piedi, spazzolando le briciole dalla malconcia giacca di tweed. Un vaso di aringhe in salamoia era posato sul tavolo accanto a un cartoccio di plastica tutta strappata contenente fette di pane da toast e a un portacenere di stagno pieno di mozziconi di Partagas.
— Aspettate — intimò loro Finn prima di lasciare la stanza.
Molly si accomodò, sfoderò la lametta del dito indice e fiocinò un pezzo di aringa grigiastra. Case vagò senza meta nella stanza, tastando le apparecchiature analizzatrici piazzate sui pilastri a mano a mano che ci passava accanto.
Dieci minuti dopo Finn ritornò tutto agitato, mostrando i denti in un ampio sorriso giallo. Annuì, rivolse a Molly un cenno con il pollice in su e fece segno a Case di dargli una mano con il pannello della porta. Mentre Case lisciava i bordi di velcro, Finn estrasse dalla tasca una piccola consolle piatta sulla quale batté un’elaborata sequenza.
— Tesoro, ce l’hai fatta. Lo sento a naso. Vuoi dirmi dove l’hai avuto? — disse, rivolto a Molly, mettendo via la consolle.
— Yonderboy — l’informò Molly, scostando le aringhe e le fette di pan carré. — Ho fatto un affaruccio con Larry, di straforo.
— Brillante — esclamò Finn. — È un’IA.
— Vacci piano — intervenne Case.
— Berna — proseguì Finn, ignorandolo. — Berna. Ha la cittadinanza svizzera limitata, secondo il loro equivalente della legge del ’53. Costruita per la Tessier-Ashpool S.A. Sono loro i proprietari del mainframe e del software originale.
— Cosa c’è a Berna, me lo volete spiegare? — Case fece un passo avanti per frapporsi deliberatamente tra i due.
— Invernomuto è il codice di riconoscimento per una IA. Ho il numero di registrazione del Turing. Intelligenza Artificiale.
— Fantastico — dichiarò Molly. — Ma dove ci porta?
— Se Yonderboy ha ragione, questa IA sta dietro ad Armitage.
— Ho pagato Larry perché i Moderni ficcassero un po’ il naso intorno ad Armitage — spiegò Molly rivolgendosi a Case. — Hanno delle linee di comunicazione davvero bizzarre. Il patto era che avrebbero ricevuto i miei soldi solo se avessero risposto a una mia domanda: chi dirige Armitage?
— E tu pensi che sia questa IA? A quegli affari non è concessa la minima autonomia. Deve trattarsi della società che la controlla, questa Tessle…
— Tessier-Ashpool S.A. — ripeté Finn. — E ho una piccola storia per te su di loro. Vuoi sentirla? — Si sedette e si inclinò in avanti.
— Finn ama le storie — spiegò Molly.
— Questa non l’ho mai raccontata a nessuno — cominciò Finn.
Finn era un ricettatore, un trafficante di merci rubate, soprattutto software. Nel corso dei suoi traffici entrava talvolta in contatto con altri ricettatori, alcuni dei quali trattavano gli articoli più tradizionali del mestiere, metalli preziosi, francobolli e monete, gemme, gioielli, pellicce, dipinti e altre opere d’arte. La storia che raccontò a Case e a Molly cominciò appunto con la storia di un altro uomo… un certo Smith.
Anche Smith era un ricettatore, ma nelle stagioni più propizie rispuntava nei panni di mercante d’arte. Era la prima persona conosciuta da Finn che fosse “passata al silicio”. Quella frase suonava antiquata a Case. I microsoftware che Smith comperava riguardavano programmi sulla storia dell’arte e le tabelle delle vendite nelle gallerie d’arte.
Con una mezza dozzina di chip nel suo nuovo innesto, la conoscenza che Smith aveva degli affari in campo artistico era formidabile, per lo meno tenendo presenti gli standard dei suoi colleghi. Ma Smith era venuto da Finn con una richiesta di aiuto, una richiesta fraterna da uomo d’affari a uomo d’affari. Voleva un rapporto sul clan Tessier-Ashpool e con la garanzia dell’assoluta impossibilità da parte del soggetto di rintracciare la fonte della richiesta. Era possibile, aveva risposto Finn, esprimendo la propria opinione, ma era decisamente necessaria una spiegazione. — Puzzava — spiegò Finn a Case. — Puzzava di denaro. E Smith era molto prudente. Perfino troppo.
Risultò che Smith si era servito di un fornitore conosciuto come Jimmy. Jimmy era uno scassinatore, e anche altre cose, ed era appena tornato da un anno in orbita, portandosi dietro certe cosette nel pozzo gravitazionale. Il colpo più insolito che Jimmy era riuscito a mettere a segno durante il suo giro attraverso l’arcipelago era una testa, un busto lavorato in maniera assai complicata, di platino smaltato, tempestato di perline e lapislazzuli. Smith, sospirando, aveva posato il suo microscopio tascabile, consigliando Jimmy di fondere quell’affare. Era contemporaneo, e non un oggetto d’antiquariato, quindi non aveva il minimo valore per un collezionista. Jimmy era scoppiato a ridere: quell’affare era il terminale di un computer. Poteva parlare. E non con una voce sintetica, ma grazie a una splendida combinazione di congegni e canne d’organo in miniatura. Era una creazione barocca. Chiunque l’avesse montata doveva essere un deviato, dato che adesso i chip per la sintesi vocale non costavano praticamente nulla. Era una curiosità. Smith aveva collegato la testa al suo computer e aveva ascoltato quella voce melodiosa e disumana che cinguettava le cifre della dichiarazione dei redditi dell’anno precedente.
La clientela di Smith comprendeva un miliardario di Tokyo la cui passione per gli automatismi a orologeria sfiorava il feticismo. Smith aveva scrollato le spalle mostrando a Jimmy il palmo delle mani rivolto all’insù con un gesto vecchio quanto i banchi di pegni. Poteva tentare, aveva detto, ma dubitava di riuscire a ottenere molto.
Una volta che Jimmy se ne fu andato, lasciando lì il busto, Smith l’aveva esaminato con molta cura, scoprendo certe caratteristiche. Alla fine era riuscito a farlo risalire a un’improbabile collaborazione fra due artigiani di Zurigo, uno specialista di smalti di Parigi, un gioielliere olandese e un progettatore di chip californiano. Aveva poi scoperto che era stato commissionato dalla Tessier-Ashpool S.A.
Smith aveva cominciato i suoi contatti preliminari con il collezionista di Tokyo, lasciando capire di trovarsi sulle tracce di qualcosa di ragguardevole.
E poi aveva avuto visite, un ospite non annunciato, un individuo che era passato attraverso l’elaborato labirinto delle misure di sicurezza di Smith come se non esistessero. Un ometto giapponese, terribilmente compito, il quale recava su di sé tutti i segni dell’assassino ninja cresciuto in vasca. Smith era rimasto seduto immobile, fissando i tranquilli occhi castani della morte attraverso la lucidissima superficie di un tavolo di palissandro vietnamita. Gentilmente, quasi scusandosi, l’assassino clonato gli aveva spiegato come fosse suo preciso dovere ritrovare e restituire una certa opera d’arte, un meccanismo di grande bellezza che era stato asportato dalla casa del suo padrone. Gli era stato fatto notare, aveva aggiunto il ninja, che forse lui, Smith, era al corrente del luogo in cui doveva trovarsi l’oggetto.
Smith aveva spiegato all’ometto di non aver alcun desiderio di morire, dopodiché aveva tirato fuori il prezioso busto. Allora il visitatore gli aveva chiesto quanto si aspettava di ottenere dalla vendita di quell’oggetto. Smith aveva calcolato una cifra assai inferiore al prezzo che aveva avuto intenzione di fissare. Il ninja aveva tirato fuori un chip di credito e aveva battuto quella cifra per Smith da un conto numerato svizzero. E poi gli aveva chiesto: chi le ha portato questo pezzo? Smith gliel’aveva detto. Nel giro di pochi giorni aveva appreso della morte di Jimmy.