— Così a questo punto sono entrato in gioco io — continuò Finn. — Smith sapeva che avevo a che fare con la gente di Memory Lane, ed è là che vai se ne vuoi uno tranquillo che non sarà mai rintracciato. Ingaggiai un cowboy. Io ero il mediatore, così mi sono preso la percentuale. Smith, lui era molto cauto. Aveva appena fatto un’esperienza d’affari molto strana e ne era uscito vivo, ma la cosa non quadrava. Chi aveva pagato quel gruzzolo in Svizzera? La Yakuza? No di certo. Avevano un codice molto rigido per coprire situazioni come quella, e uccidevano anche il compratore, sempre. Era forse roba losca? Smith ne dubitava. Gli affari loschi emanano una vibrazione, e si finisce per abituarsi ad annusarla. Bene, feci setacciare al mio cowboy gli archivi fino a quando non trovammo una notizia sulla Tessier-Ashpool rimasta impegolata in una controversia legale. Il caso non era niente di speciale, ma da lì risalimmo allo studio legale. Poi penetrammo l’ice dell’avvocato e ottenemmo l’indirizzo di famiglia. Proprio quello che ci serviva.
Case sollevò le sopracciglia.
— Freeside, il satellite — proseguì Finn. — Risultò che possedevano quasi tutta quella maledetta baracca lassù in cielo. La cosa interessante fu il quadro che ottenemmo quando il cowboy diede una setacciata in piena regola agli archivi dei notiziari, compilando un riassunto. L’organizzazione della famiglia: una struttura societaria. In teoria, è sempre possibile acquistare azioni di una S.A., una società anonima, ma non c’è stata una sola azione della Tessier-Ashpool venduta sul mercato da più di cento anni. E su qualunque mercato, da quanto mi risulta. Stiamo parlando di una famiglia della prima generazione, orbita esterna, molto riservata, molto eccentrica, gestita come una grande società. Grossi capitali, ma rifugge dai media. Un sacco di clonazioni. La legge orbitale è molto più morbida con l’ingegneria genetica, no? Ed è difficile seguire quale generazione, o combinazione di generazioni, diriga lo spettacolo in un dato momento.
— Come mai? — chiese Molly.
— Hanno una propria organizzazione criogenica. Anche secondo la legge orbitale sei legalmente morto per tutta la durata dell’ibernazione. Pare che si passino gli incarichi direttivi alla fine d’ogni ibernazione, anche se nessuno ha più visto il padre fondatore da trent’anni buoni. La madre fondatrice è morta in un qualche incidente di laboratorio…
— Ma allora, cos’è successo al tuo ricettatore?
— Niente. — Finn aggrottò la fronte. — Ha lasciato perdere. Abbiamo dato un’occhiata a questo fantastico intrico di legulei di cui dispone la T-A, ed è tutto. Jimmy dev’essere entrato dentro villa Straylight, ha rubato la testa, e la Tessier-Ashpool gli ha messo alle calcagna il suo ninja. Smith ha deciso di dimenticarsene. Forse è stato furbo così. — Guardò Molly. — Villa Straylight. Sull’estremità dell’asse. Rigorosamente privata.
— Pensi che possiedano quel ninja, Finn? — gli chiese Molly.
— Smith ne era convinto.
— Molto costoso — fu il commento di Molly. — Mi chiedo cosa sarà successo a quel piccolo ninja, Finn?
— Probabilmente l’hanno messo sotto ghiaccio. Lo scongeleranno quando ce ne sarà bisogno.
— D’accordo — disse Case — abbiamo Armitage che si serve da una IA chiamata Invernomuto. Dove ci porta questo?
— Da nessuna parte ancora, ma adesso abbiamo qualcosa di collaterale — replicò Molly. Prese un foglietto ripiegato dalla tasca e glielo porse. Finn l’aprì. Una griglia di coordinate e di codici di accesso.
— Chi sarebbe?
— Armitage. Alcuni database su di lui. Li ho comprati dai Moderni. Un contratto separato. Dove si trova?
— A Londra — rispose Case.
— Su, vacci dentro, sfondalo. — Molly scoppiò a ridere. — Guadagnati il pane, tanto per cambiare.
Case aspettò il locale trans-BAMA sulla pensilina affollata. Molly era tornata al loft già da molte ore, con il costrutto di Flatline nella borsa verde, e da allora Case aveva continuato a bere senza sosta.
Era inquietante pensare a Flatline come a un costrutto, una cartuccia ROM che riproduceva le facoltà di un morto, le sue ossessioni, le mie reazioni istintive… Il treno locale arrivò rombando lungo la nera striscia a induzione. Una polvere fine si staccò dalle crepe del soffitto della galleria. Case s’infilò nella portiera più vicina, e durante il tragitto osservò gli altri passeggeri. Un paio di Scientiste Cristiane dall’aria invadente si stavano avvicinando a un terzetto di giovani tecnici che portavano al polso vagine olografiche idealizzate che luccicavano d’un rosa umido sotto le luci impietose. I tecnici si leccavano nervosamente le labbra perfette e sbirciavano le Scientiste Cristiane da sotto le palpebre metalliche abbassate. Le ragazze parevano snelli animali esotici e ondeggiavano con grazia inconsapevole al movimento del treno, i loro tacchi alti simili a lucidi zoccoli contro il metallo grigio del pavimento del vagone. Prima che i tre potessero darsi a una fuga disordinata e precipitosa come una mandria imbizzarrita, per sfuggire alle missionarie, il treno raggiunse la stazione di Case.
Appena uscì l’occhio gli cadde su un bianco sigaro olografico sospeso contro la parete della stazione. FREESIDE pulsava sotto l’immagine in maiuscole distorte in modo da mimare il giapponese stampato. Case attraversò la folla e si fermò là sotto, studiando quel marchingegno. PERCHÉ ASPETTARE? ammiccava la scritta. Un bianco fuso smussato, flangiato e costellato di griglie e radiatori, moli e cupole. Aveva visto quella pubblicità, o altre simili, migliaia di volte. Non l’aveva mai attirato. Con il suo deck poteva raggiungere le banche del Freeside con la stessa facilità con cui poteva raggiungere Atlanta. Viaggiare era una prerogativa della carne. Ma adesso notò il piccolo sigillo, grande come una monetina, inserito nell’angolo sinistro in basso della trama dell’annuncio luminoso: T-A.
Tornò a piedi al loft, smarrito nei ricordi del Flatline. Aveva trascorso la maggior parte della sua diciannovesima estate al Gentleman Loser, sorseggiando birre costose e osservando i cowboy. Allora non aveva ancora toccato un deck, ma sapeva quello che voleva. C’erano almeno altri venti giovani di belle speranze che infestavano il Loser, quell’estate, ognuno di loro impegnato a lavorare come tirapiedi per qualche cowboy. Non c’era altro modo per imparare.
Avevano tutti sentito parlare di Pauley, il jockey buzzurro arrivato dalla periferia di Atlanta, il quale era riuscito a sopravvivere alla morte cerebrale dietro al black ice. Le esigue soffiate, voci di strada, le uniche a portata di mano, avevano poco da dire su Pauley, se non che aveva compiuto l’impossibile. — È stata una faccenda grossa, ma chissà cos’è successo davvero — aveva detto a Case un altro aspirante informatore, per il prezzo di una birra. — Ho sentito che forse era al soldo di una rete brasiliana. Comunque quell’uomo era proprio morto, morte cerebrale nuda e cruda. — Case stava osservando al capo opposto del banco un individuo tarchiato in maniche di camicia. La sua pelle aveva qualcosa di plumbeo.
— Ragazzo — gli avrebbe detto il Flatline molti mesi dopo a Miami — io sono come quelle gigantesche lucertole del cazzo, sai. Avevano due dannati cervelli, uno dentro la testa e l’altro sull’osso della coda, che serviva a muovere le zampe posteriori. Colpivi quella bestia nella testa, e il vecchio cervello della coda continuava a funzionare.
L’élite dei cowboy al Loser evitava Pauley a causa d’una strana forma di ansia collettiva, quasi una superstizione. McCoy Pauley, il Lazzaro del cyberspazio…
E alla fine l’aveva fregato il cuore, un cuore russo, un residuato trapiantatogli in un campo di prigionia durante la guerra. Si era sempre rifiutato di sostituire quel rottame dicendo che aveva assoluto bisogno del suo particolare battito per conservare il senso del tempo…