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Intanto Corto sentiva quel gocciolare sommesso e incessante. Dichiarò che avrebbe preferito testimoniare così come era ridotto.

No, gli aveva spiegato l’emissario. I processi venivano trasmessi in televisione. Era necessario che arrivassero agli elettori. L’inviato tossicchiò educatamente.

Riparato, riequipaggiato e ampiamente imbeccato, Corto aveva dunque deposto, e fu un momento dettagliato, commovente, lucido, in gran parte inventato da una cricca del Congresso che aveva interesse a salvare certi particolari settori dell’infrastruttura del Pentagono. Corto si era reso conto, un po’ per volta, che la testimonianza da lui fornita era essenziale per salvare la carriera di tre ufficiali direttamente responsabili della sparizione dei rapporti relativi alla costruzione delle installazioni emp a Kirensk.

Una volta esaurito il suo ruolo nei processi, a Washington non lo volle più nessuno. In un ristorante sulla M Street, davanti a un piatto di crèpe agli asparagi, l’inviato del Congresso gli aveva spiegato quali fossero gli indicibili pericoli se avesse parlato con le persone sbagliate. Corto gli aveva frantumato la laringe con le dita rigide della mano destra. L’inviato del Congresso era morto strangolato, con il viso dentro una crèpe agli asparagi, e Corto era uscito, nella fresca aria settembrina di Washington.

L’Hosaka sferragliò attraverso i rapporti della polizia, i documenti dei servizi di spionaggio delle grosse società e gli archivi dei notiziari. Case osservò Corto lavorarsi i disertori delle multinazionali a Lisbona e a Marrakesh, dove pareva sempre più ossessionato dall’idea del tradimento, mostrando di odiare gli scienziati e i tecnici che assoldava per conto dei propri datori di lavoro. Ubriaco, in un albergo di Singapore aveva picchiato a morte un tecnico russo e aveva appiccato il fuoco alla sua stanza.

Poi era riemerso in Tailandia, come supervisore in una raffineria di eroina. Quindi come scagnozzo per conto di un gruppo di bische in California, poi come sicario a pagamento fra le rovine di Bonn. Aveva rapinato una banca a Wichita. La documentazione diventava vaga, fumosa, i vuoti erano sempre più ampi.

Un giorno, riferiva un nastro audio (che implicava un interrogatorio eseguito con sostanze chimiche), tutto era diventato grigio, fumoso.

Una cartella medica francese tradotta spiegava infine che un uomo non identificato era stato ricoverato in una unità per malati di mente a Parigi con una diagnosi di schizofrenia. Divenuto catatonico, era stato trasferito in un istituto statale alla periferia di Tolone in cui era stato sottoposto a un programma sperimentale che si proponeva d’invertire il processo di schizofrenia tramite l’applicazione di modelli cibernetici. Un gruppo di pazienti scelti a caso veniva fornito di microcomputer che erano incoraggiati a programmare, con l’aiuto degli studenti. Era guarito. L’unico successo di tutto l’esperimento.

Qui la documentazione terminava.

Case si rigirò sulla gommapiuma, e Molly imprecò sottovoce per essere stata disturbata.

Il telefono squillò. Case se lo tirò sul letto. — Sì?

— Andiamo a Istanbul — annunciò Armitage. — Stasera.

— Cosa vuole quel bastardo? — chiese Molly.

— Dice che stasera andiamo a Istanbul.

— Davvero meraviglioso.

Armitage stava elencando i numeri dei voli e gli orari delle partenze.

Molly si rizzò a sedere e accese la luce.

— E le mie apparecchiature? — domandò Case. — Il mio deck?

— Se ne occuperà Finn — rispose Armitage, e riappese.

Case osservò Molly che si era messa a fare le valige. Aveva cerchi scuri sotto gli occhi, ma perfino con l’ingessatura addosso era come osservare un balletto. Nessun movimento sprecato. Gli indumenti di Case erano una pila spiegazzata accanto alla sua borsa.

— Ti fa male? — le chiese.

— Non mi dispiacerebbe un’altra notte da Chin.

— Il tuo dentista?

— Puoi scommetterci. Molto discreto. Quella sua clinica è sempre piena. Fa riparazioni per i samurai. — Molly stava chiudendo la cerniera della borsa. — Sei mai stato a Istanbul?

— Un paio di volte, anni fa.

— Non cambia mai. È una città vecchia e sgradevole.

— È uguale a quando siamo andati a Chiba — disse Molly, osservando dal finestrino del treno il paesaggio industriale lunare e inaridito, con i fari rossi all’orizzonte che avvertivano gli aerei di tenersi lontani da un impianto a fusione. — Eravamo a Los Angeles. Lui è entrato e ha detto: “Fai le valigie”. Avevamo già i posti prenotati per Macao. Quando siamo arrivati, io ho giocato fantan al Lisboa e lui è andato dall’altra parte, a Zhongshan. Il giorno dopo giocavo a pedinarti a Night City. — Sfilò una sciarpa di seta dalla manica del giubbotto nero e lustrò gli innesti oculari. Il paesaggio dello Sprawl a nord risvegliava in Case confusi ricordi della sua infanzia, ciuffi di erba morta che spuntavano dalle crepe di uno sconnesso lastrone di cemento dell’autostrada.

Il treno cominciò a rallentare a dieci chilometri dall’aeroporto. Case guardò il sole spuntare sul paesaggio della sua infanzia, sulle scorie frantumate e sui gusci arrugginiti delle raffinerie.

7

Stava piovendo a Beyoglu, e la Mercedes a nolo scivolava davanti alle vetrine spente dei prudenti gioiellieri greci e armeni, chiuse da pesanti grate. La strada era quasi deserta e sui marciapiedi soltanto poche figure vestite di scuro si voltarono per seguire con lo sguardo la macchina.

— Un tempo questo era il prospero quartiere europeo della Istanbul ottomana — ronzò flautata la Mercedes.

— Così è andato a rotoli — commentò Case.

— L’Hilton è in Cumhuriyet Caddesi — disse Molly, lasciandosi andare sull’ultracamoscio grigio della macchina.

— Come mai Armitage vola da solo? — chiese Case. Aveva un gran mal di testa.

— Perché gli stai sulle scatole. E non c’è dubbio che cominci a stare sulle scatole anche a me.

Voleva raccontarle la storia di Corto, ma decise di non farlo. Sull’aereo aveva usato un derma per dormire.

La strada dall’aeroporto era dritta come un fuso, come un’incisione netta che spaccava in due la città lasciandola allo scoperto. Case vide passare l’incredibile mosaico formato dalle pareti dei casamenti di legno, i condominii, le arcologie, i tetri casermoni, alte muraglie di compensato e di lamiera ondulata.

Finn, con indosso un nuovo completo nero Shinjuku da sarariman, li stava aspettando arcigno nell’atrio dell’Hilton, sprofondato in una poltrona di velour in un mare di tappeti azzurro pallido.

— Cristo — esclamò Molly. — Un sorcio vestito da uomo d’affari.

Attraversarono l’atrio.

— Quanto ti pagano per venire fin qui, Finn? — Molly posò la borsa accanto alla poltrona. — Scommetto meno di quanto ti danno per indossare quel vestito, eh?

Il labbro superiore di Finn si ritrasse. — Non abbastanza, dolcezza. — Le porse una chiave magnetica con un’etichetta gialla rotonda. — Siete già registrati. Il gran capo è di sopra. — Si guardò intorno. — Questa città è sempre pronta a fregarti.

— Tu diventi agorafobo non appena ti tirano fuori da sotto una cupola. Fai finta che sia Brooklyn o qualcosa del genere. — Molly fece roteare la chiave intorno a un dito. — Sei qui come valletto o cosa?

— Devo controllare gli impianti di un tizio — disse Finn.

— E il mio deck? — domandò Case.

Finn fece una smorfia. — Rispetta il protocollo. Chiedilo al capo.

Le dita di Molly si agitarono nell’ombra della giubba, un balenare di segni. Finn osservò, poi annuì.

— Già, so chi è — disse lei, e girò di scatto la testa in direzione degli ascensori. — Vieni, cowboy. — Case la seguì con entrambe le borse.