Lei pescò da una tasca all’altezza della caviglia un pacchetto accartocciato di Yeheyuan col filtro e gliene offrì una. Lui la prese, lasciò che Linda gliela accendesse con un tubo di plastica rossa. — Dormi bene, Case? Mi sembri stanco. — Il suo accento la situava a sud lungo lo Sprawl, verso Atlanta. La pelle sotto gli occhi era pallida e malaticcia, ma la carne sembrava ancora liscia e soda. Aveva vent’anni. Nuove rughe di dolore cominciavano a incidersi in permanenza agli angoli della bocca. I capelli scuri erano pettinati all’indietro, tenuti insieme da un nastro di seta stampata. Il motivo poteva rappresentare dei microcircuiti oppure la pianta di una città.
— No, se ricordo di prendere le mie pillole — replicò Case mentre si sentiva travolgere da un’ondata palpabile di nostalgia, libidine e solitudine in arrivo sulla lunghezza d’onda dell’amfetamina. Ricordava l’odore della sua pelle nel buio surriscaldato d’una bara vicino al porto, le sue dita intrecciate dietro al fondoschiena.
Tutta la carne, pensò, e tutto quello che la carne vuole.
— Wage — disse lei, socchiudendo gli occhi. — Wage vorrebbe vederti con un buco in fronte. — Accese la propria sigaretta.
— Chi l’ha detto? Ratz? Hai parlato con Ratz?
— No, Mona… Il suo nuovo ganzo è uno dei ragazzi di Wage.
— Non gli debbo abbastanza grana. E se mi fa fuori, i soldi non li vede più. — Case scrollò le spalle.
— Ormai c’è troppa gente che gli deve grana, Case. Forse tu gli puoi servire da esempio. Dico sul serio, farai meglio a stare attento.
— Sicuro. E tu… Linda? Hai dove dormire?
— Dormire? — Lei scrollò la testa. — Sicuro, Case. — La ragazza rabbrividì, quindi si piegò in avanti sul tavolo. Il suo volto era coperto da una pellicola di sudore.
— Tieni — disse lui, e affondò la mano nel giubbotto, emergendone con un cinquanta spiegazzato che lisciò automaticamente sotto il tavolo, piegò in quattro e le passò.
— Ne hai più bisogno tu, tesoro. Farai meglio ad allungarli a Wage. — Adesso c’era qualcosa in quegli occhi grigi che non riusciva a interpretare, qualcosa che non vi aveva mai visto prima.
— Gli devo molto di più. Tienili. Ne ho altri in arrivo — mentì mentre vedeva i nuovi yen sparire in una tasca con la cerniera.
— Incassa i tuoi soldi, Case, e poi corri da Wage, in fretta.
— Ci vediamo, Linda — disse lui, alzandosi in piedi.
— Sicuro. — Un millimetro di bianco comparve sotto entrambe le pupille della ragazza. Sanpaku. — Guardati le spalle, amico.
Lui annuì, ansioso di andarsene.
Si girò mentre la porta di plastica gli si chiudeva alle spalle, e vide i suoi occhi riflessi in una gabbia di neon rosso.
Venerdì sera a Ninsei.
Passò davanti alle bancarelle che servivano spiedini di pollo, ai “saloni di bellezza”, poi davanti a un caffè chiamato Beautiful Girl, al frastuono elettronico di una sala giochi. Si scostò per lasciar passare un sarariman in completo scuro, intravedendo il marchio della Mitsubishi-Genetech tatuato sul dorso della mano destra dell’uomo.
Era autentico? Se lo era, l’amico andava in cerca di guai. Se non lo era, ben gli stava. Gli impiegati della M-G al di sopra di un certo livello erano impiantati con microprocessori di concezione avanzata che controllavano il livello del mutageno in circolo. Congegni del genere erano più che sufficienti per farsi rapire a Night City e finire dritti in una clinica clandestina.
Il sarariman era un giapponese, ma la folla di Ninsei era una folla di stranieri. Gruppi di marinai saliti dal porto, solitari turisti dall’aria tesa in caccia di piaceri che nessuna guida elencava, gorilla dello Sprawl che mettevano in mostra innesti e impianti, e una dozzina di specie diverse di trafficanti, tutti che sciamavano per le strade in una danza di desiderio e raggiri.
C’erano innumerevoli teorie per spiegare come mai Chiba City tollerasse l’enclave di Ninsei, ma Case propendeva per l’idea che la Yakuza conservasse quel luogo come una specie di parco a tema storico, per ricordare le sue umili origini, ma trovava anche un certo buon senso nell’ipotesi che le tecnologie fiorenti richiedessero zone al di là della legge, che Night City non fosse lì per i suoi abitanti, ma in realtà fosse un campetto da gioco volutamente incontrollato, destinato alla tecnologia stessa.
Alzando lo sguardo sulle luci si chiese se Linda non avesse per caso ragione. Wage l’avrebbe davvero ucciso per dare un esempio? Non aveva molto senso. Ma d’altronde Wage commerciava campioni biologici messi al bando, e dicevano che bisognava esser pazzi davvero per farlo. Linda aveva detto che Wage lo voleva morto. L’idea che s’era fatto Case della dinamica dei traffici condotti per strada era che né il compratore, né il venditore, in effetti, avevano bisogno di lui. Il lavoro del mediatore consiste essenzialmente, nel fare di sé un male necessario. La discutibile nicchia che Case s’era scavato nell’ecologia criminale di Night City era stata aperta a colpi di menzogne, racimolata una notte per volta a suon di tradimenti. Adesso, sentendo che le sue pareti cominciavano a sgretolarsi, barcollava sull’orlo d’una strana euforia.
Una settimana prima aveva ritardato il trasferimento di un estratto ghiandolare sintetico, vendendolo al dettaglio con un margine di guadagno più ampio del solito. Sapeva che a Wage la cosa non era andata giù. Wage era il suo fornitore principale, nove anni a Chiba e uno dei pochi spacciatori gaijin che fosse riuscito a forgiare dei contatti con la struttura criminale rigidamente stratificata al di là dei confini di Night City. I materiali genetici e gli ormoni arrivavano col contagocce fino a Ninsei seguendo una complessa cascata di facciate ufficiali e d’intermediari all’oscuro di tutto. In qualche modo, in passato, Wage era riuscito a risalire la trafila, e adesso godeva di contatti stabili in una dozzina di città.
Case si trovò a guardare dentro la vetrina d’un negozio dove vendevano piccoli oggetti da marinai: orologi, coltelli a scatto, accendini, VTR tascabili, consolle per giocare a simstim, catene manriki bilanciate e shuriken. Le shuriken l’avevano sempre affascinato, stelle d’acciaio con le punte acuminate come coltelli. Alcune erano cromate, altre nere, altre trattate in superficie in modo da risultare iridescenti come una chiazza oleosa sull’acqua. Ma erano le stelle al cromo a catturare il suo sguardo. Erano montate su pelle scarlatta di ultracamoscio tramite cappi di nylon quasi invisibile, e il loro centro portava impressi draghi o i simboli yin e yang. Riflettevano, distorcendola, la luce delle insegne al neon della strada. A Case venne da pensare che quelle erano le stelle sotto le quali viaggiava, il suo destino scritto in una costellazione al cromo da due soldi.
— Julie — disse, rivolto alle sue stelle. — È giunto il momento di passare a trovare il vecchio Julie. Lui lo saprà.
Julius Deane aveva centotrentacinque anni, e il suo metabolismo veniva alterato a cadenza settimanale da un autentico patrimonio in siero e ormoni. La sua principale barriera contro l’invecchiamento era un pellegrinaggio annuale fino a Tokyo, dove i chirurghi genetici reimpostavano il suo codice DNA, un procedimento non reperibile a Chiba. Poi volava a Hong Kong, dove ordinava vestiti e camicie per tutto l’anno. Asessuato e dotato di una pazienza sovrumana, pareva trovare la sua principale gratificazione nella dedizione a forme esoteriche di venerazione per le arti sartoriali. Case non l’aveva mai visto indossare due volte lo stesso vestito, malgrado il suo guardaroba sembrasse consistere interamente di meticolose ricostruzioni di indumenti del secolo precedente. Ostentava lenti da vista incastonate su un’esile montatura d’oro, molate da sottili lastre di quarzo rosa sintetico e levigate a smusso come gli specchi di una casa di bambola vittoriana.