I suoi uffici erano alloggiati in un magazzino dietro Ninsei, parte del quale pareva essere stato arredato anni prima in modo sommario con una collezione accumulata a casaccio di mobili europei, quasi che Deane avesse avuto l’intenzione, un tempo, di usare quel posto come propria fissa dimora. Librerie in stile neoazteco raccoglievano la polvere contro una parete della stanza in cui Case stava aspettando. Un paio di bulbose lampade da tavolo stile Disney erano appollaiate goffamente su un tavolinetto alla Kandinskij, in acciaio laccato di rosso. Un orologio alla Dalì era appeso al muro tra gli scaffali, e il suo quadrante distorto sembrava colare fino al pavimento di nudo cemento. Le lancette erano ologrammi che si alteravano in modo da restare in sincrono con le deformazioni del quadrante a mano a mano che ruotavano, ma non indicavano mai l’ora esatta. La stanza era piena zeppa di cassette in fibra di vetro bianca da cui esalava il sentore pungente dello zenzero conservato.
— Sembri pulito, figliolo — disse la voce incorporea di Deane. — Entra pure.
Le serrature magnetiche scattarono con un tonfo tutt’intorno alla massiccia porta di finto palissandro alla sinistra degli scaffali. Sulla plastica campeggiava la scritta: JULIUS DEANE IMPORT-EXPORT in maiuscole autoadesive scollate. I mobili sparpagliati nel raffazzonato atrio di Deane suggerivano la fine del secolo scorso, l’ufficio invece pareva appartenere a un’epoca ancora antecedente.
Il volto roseo privo di rughe di Deane fissò Case da una pozza di luce proiettata da un’antica lampada di ottone con un paralume rettangolare di vetro verde scuro. L’importatore era asserragliato dietro un’enorme scrivania d’acciaio verniciato, fiancheggiata su entrambi i lati da altissime cassettiere d’una qualche specie di legno chiaro. Il genere di mobilia, a parere di Case, usata un tempo per archiviare documenti cartacei d’un qualche tipo. Il ripiano della scrivania era disseminato di cassette, tabulati ingialliti e vari pezzi d’una macchina da scrivere meccanica, un marchingegno che evidentemente Deane non riusciva mai a trovare il tempo di rimettere insieme.
— Qual buon vento ti porta, ragazzo? — chiese il padrone di casa, offrendo a Case un dolcetto avvolto in un incarto a scacchi azzurri e bianchi. — Prova una di queste, Tìng Ting Djahe, sono le migliori. — Case rifiutò lo zenzero, prese posto su una poltroncina girevole di legno dall’ampio schienale e fece scorrere il pollice lungo la cucitura sbiadita di una gamba dei jeans neri. — Julie, ho sentito che Wage vuole farmi fuori.
— Ah, capisco. E dove l’hai sentito, se mi è concesso?
— Voci…
— Voci — ripeté Deane, parlando con una caramella allo zenzero in bocca. — Che genere di voci? Amici?
Case annuì.
— Non è sempre facile capire chi sono gli amici, vero?
— Gli devo un po’ di soldi, a Wage… Ti ha detto niente, Deane?
— Non ci sentiamo da un tot. — Poi Deane sospirò. — Se lo sapessi, naturalmente, potrei anche non essere nella condizione di dirtelo. Le cose sono quelle che sono… capisci.
— Le cose.
— Quello è un contatto importante, Case.
— Già. Vuole uccidermi, Julie?
— Non che io sappia. — Deane scrollò le spalle. Avrebbero potuto benissimo discutere del prezzo dello zenzero. — Nel caso dovesse dimostrarsi una voce infondata, figliolo, torna qui da me fra una settimana o giù di lì e ti farò entrare in un affaruccio con quel tizio di Singapore.
— Nan Hai Hotel, Bencoolen Street?
— Acqua in bocca, figliolo. — Deane lo fissò sogghignando. La sua scrivania d’acciaio era letteralmente straboccante di apparecchiature antispionaggio.
— Ci vediamo, Julie. Salutami Wage.
Le dita di Deane scattarono ad accarezzare il nodo perfetto della pallida cravatta di seta.
Case era a meno di un isolato dall’ufficio di Deane quando fu colto dall’intima consapevolezza di avere qualcuno alle calcagna, molto vicino.
Case dava per scontato che fosse indispensabile coltivare una moderata paranoia. Il trucco consisteva nel non consentire che sfuggisse al suo controllo. Ma poteva essere un’impresa improba dietro una svalangata di ottagoni. Lottò contro l’improvvisa scarica di adrenalina e compose i tratti affilati del volto in una maschera di annoiato disinteresse, fingendo che fosse la folla a trascinarlo con sé. Appena vide una vetrina buia, fece in modo di fermarcisi di fronte. Era una boutique chirurgica, chiusa per lavori. Con le mani nelle tasche della giacca rimirò attraverso il vetro una losanga di pelle sintetica appoggiata su un piedistallo di finta giada. Il colore di quella pelle gli ricordò le puttane di Zone: era tatuata con un display digitale luminoso collegato a un chip sottocutaneo. Perché darsi tanta pena con la chirurgia, gli venne da pensare mentre il sudore gli scorreva giù per le costole, quando puoi semplicemente tenere in tasca quell’affare?
Senza muovere la testa, sollevò gli occhi e studiò il riflesso della folla che passava.
Eccolo.
Dietro a un gruppetto di marinai con camicie kaki a maniche corte. Capelli scuri, occhiali a specchio, vestiti scuri, magro…
E già sparito.
Poi Case si mise a correre, piegato in due, schivando i passanti.
— Affittami una pistola, Shin.
Il ragazzo sorrise. — Due ore. — Erano fermi in mezzo all’odore dei crostacei crudi e freschi dietro un banchetto di sushi di Shiga. — Torna fra due ore.
— Me ne serve una subito, amico. Hai niente, qui, pronta consegna?
Shin frugò dietro le latte vuote da due litri che un tempo erano state piene di rafano in polvere e tirò fuori un pacchetto sottile avvolto nella plastica grigia. — Taser. Un’ora, venti nuovi yen. Trenta di deposito.
— Merda. Non mi serve un pungolo. Mi serve una pistola. Come se volessi sparare a qualcuno, capito?
Shin scrollò le spalle, tornando a infilare la taser dietro le latte di rafano. — Due ore.
Entrò nel negozio senza degnare di una singola occhiata le shuriken in bella mostra. Non ne aveva mai scagliata una in vita sua.
Comperò due pacchetti di Yeheyuan con un chip della Mitsubishi Bank che corrispondeva al nome di Charles Derek May. Batteva persino Truman Starr, il miglior passaporto che fosse mai riuscito a produrre.
La giapponese dietro al terminale pareva avere qualche anno di svantaggio sul vecchio Deane, nessuno dei quali con il beneficio della ragione. Case estrasse il magro rotolo di nuovi yen dalla tasca e glielo mostrò. — Vorrei comprare un’arma.
La donna indicò una bacheca piena di coltelli.
— No — disse lui. — Non mi piacciono i coltelli.
La giapponese prese una scatola rettangolare da sotto il banco. Il coperchio era di cartone giallo, con sopra stampata la rozza immagine di un cobra avvolto a spirale, con il cappuccio rigonfio. All’interno c’erano otto cilindri identici avvolti nella carta velina. Case seguì con lo sguardo le dita chiazzate di marrone mentre toglievano la carta da un cilindro. La donna sollevò l’oggetto perché il cliente potesse esaminare il tubo d’acciaio opaco con una cinghia di cuoio a un’estremità e una piccola piramide di bronzo all’altra, poi strinse il tubo con una mano, la piramide fra l’altro pollice e l’indice, e tirò. Tre segmenti telescopici di filo lubrificato riavvolto scivolarono all’esterno e si bloccarono con uno scatto. — Cobra — spiegò la giapponese.
Oltre il tremolio al neon di Ninsei, il cielo era sempre di quella sgradevole sfumatura grigia. L’aria era peggiorata: quella sera pareva avere i denti, e una buona metà dei passanti indossava mascherine. Case aveva passato dieci minuti in un orinatoio cercando di trovare la maniera più efficace di nascondere il suo cobra. Alla fine aveva deciso di ficcare il manico nella cintura dei jeans, con il tubo posato di traverso sullo stomaco. La punta vulnerante a piramide era infilata fra la cassa toracica e l’imbottitura della giacca a vento. Gli pareva che quell’affare dovesse cadere con grande fracasso sul marciapiede da un momento all’altro, ma lo faceva sentire decisamente più a suo agio.