La testa sparì. Ma Case rimase lo stesso al riparo della consolle. Contò, lentamente, fino a venti, poi si alzò. Stringeva ancora in mano il cobra d’acciaio, e gli ci vollero alcuni secondi per ricordarsi cos’era. Poi s’allontanò zoppicando lungo il vicolo, massaggiandosi la caviglia sinistra.
La pistola di Shin era un’imitazione vietnamita di almeno cinquant’anni prima della copia sudamericana di una Walther PPK, doppia azione al primo colpo, con una trazione molto violenta. Aveva la camera di un fucile a canna lunga calibro 22 e Case avrebbe preferito degli esplosivi ad azoturo di piombo alle semplici punte cave cinesi che Shin gli aveva rifilato. Comunque era pur sempre una pistola completa di nove caricatori, e mentre s’incamminava lungo la Shiga allontanandosi dal banchetto del sushi la cullò nella tasca della giacca. L’impugnatura era di plastica color rosso vivo, modellata con un rilievo a forma di drago. Qualcosa su cui far scorrere il pollice al buio. Aveva affidato il cobra a un bidone della spazzatura a Ninsei, dopodiché aveva inghiottito a secco un altro ottagono.
La pillola fece scattare gli interruttori, e lui s’infilò tra la folla dell’ora di punta lungo la Shiga fino a Ninsei, per poi proseguire verso la Baiitsu. Decise che il suo tallonatore non c’era più, un’ottima notizia. Aveva delle telefonate da fare, affari da concludere, e questi non potevano aspettare. Dopo un isolato di Baiitsu, verso il porto, incontrò un edificio anonimo di dieci piani di orrendi mattoni gialli. Adesso le finestre erano buie, ma allungando il collo si scorgeva un debole bagliore che proveniva dal tetto. Un’insegna spenta accanto all’ingresso principale proclamava CHEAP HOTEL sotto un grappolo d’ideogrammi. Se quel posto aveva un altro nome, Case non lo conosceva: era sempre stato citato come Cheap Hotel. Vi si accedeva attraverso un vicolo che dava sulla Baiitsu, dove un ascensore era in attesa ai piedi di un pozzetto verticale trasparente. L’ascensore, al pari del Cheap Hotel, era un’aggiunta dell’ultimo momento, tenuto attaccato all’edificio per mezzo di bambù e resine epossidiche. Case entrò nella gabbia di plastica e usò la propria chiave, un pezzo di nastro magnetico rigido privo di qualsiasi indicazione.
Al Cheap Case aveva affittato una bara, pagandola settimana per settimana, fin da quando era arrivato a Chiba, ma non ci aveva mai dormito. Di solito dormiva in posti ancora più economici.
L’ascensore sapeva di profumo e sigarette. Le pareti della gabbia erano graffiate e imbrattate da impronte di pollice. Quando superò il quinto piano, Case vide le luci di Ninsei. Tamburellò con le dita sul calcio della pistola mentre la gabbia rallentava con un sibilo. Come sempre, si arrestò con un violento sobbalzo, ma lui era preparato. Uscì nel giardinetto che fungeva sia da atrio che da prato.
Al centro di un verde quadrato di plastica erbosa un adolescente giapponese sedeva davanti a una consolle a forma di C, intento a leggere un manuale. Le bare di fibra di vetro bianca erano sistemate come su un’impalcatura. Sei livelli di bare, dieci bare per lato. Case lanciò un cenno in direzione del ragazzo e attraversò zoppicando l’erba di plastica fino alla scala più vicina. Il complesso era coperto da una tettoia di laminato opaco che vibrava con il vento forte e lasciava penetrare l’acqua quando pioveva, ma almeno era ragionevolmente difficile aprire le bare senza una chiave.
La passerella, un traliccio a larghe maglie, vibrò sotto il suo peso mentre avanzava con cautela lungo il terzo livello fino alla numero 92. Le bare erano lunghe tre metri, gli sportelli ovali larghi un metro e alti poco meno di uno e mezzo. Case infilò la chiave nella fessura e aspettò la verifica del computer interno. Le serrature magnetiche produssero un tonfo rassicurante, quindi lo sportello si alzò in verticale con un cigolio di molle. I neon si accesero tremolando mentre lui strisciava all’interno, chiudendosi lo sportello alle spalle e attivando con una botta il pannello che attivava la serratura manuale.
Nella numero 92 non c’era niente salvo un computer tascabile standard della Hitachi e una piccola ghiacciaia bianca in polistirolo espanso che conteneva i resti di tre sbarre di ghiaccio secco da dieci chili, accuratamente avvolte nella carta per ritardare l’evaporazione, e un flacone d’alluminio da laboratorio. Accucciato sullo strato di gommapiuma termoisolante, che fungeva sia da pavimento che da letto, Case si sfilò dalla tasca la .22 di Shin e l’appoggiò sopra la ghiacciaia. Poi si tolse la giacca a vento. Il terminale della bara era incassato in una parete concava, davanti a un pannello che elencava in sette lingue il regolamento della casa. Case staccò dalla base la cornetta rosa e compose a memoria il numero di Hong Kong. Lasciò che suonasse cinque volte, poi riappese. Il suo acquirente di tre megabyte di RAM scottanti dell’Hitachi non rispondeva alle chiamate.
Fece un numero di Tokyo, a Shinjuku.
Una donna gli rispose qualcosa in giapponese.
— C’è Snake Man?
— Sono contento di sentire la sua voce — dichiarò Snake Man, facendosi vivo da una derivazione. — Aspettavo la sua telefonata.
— Ho la musica che voleva — l’informò Case, lanciando un’occhiata alla ghiacciaia.
— Sono molto lieto di sentirlo. Abbiamo un problema di contante. Può aspettare?
— Oh, amico, mi servono i soldi e dannatamente presto…
Snake Man riappese.
— Merda — esclamò Case al ricevitore ronzante. Fissò la piccola pistola da due soldi.
— Se — aggiunse. — Stasera è tutto molto sul se.
Case entrò nel Chat un’ora prima dell’alba, entrambe le mani infilate nelle tasche del giubbotto. In una stringeva la pistola a nolo, nell’altra il flacone di alluminio.
Ratz era seduto a un tavolo in fondo alla sala a sorseggiare acqua Apollonaris da un boccale di birra, i centoventi chili di carne flaccida appoggiati contro la parete su una sedia scricchiolante. Dietro il bancone del bar c’era un ragazzo brasiliano, Kurt, impegnato a servire una piccola clientela di ubriachi per la maggior parte taciturni. Il braccio di plastica di Ratz ronzò quando sollevò il boccale per bere. La sua testa rapata era coperta da una sottile patina di sudore. — Hai una brutta cera, artista — disse, facendo balenare l’umido sfacelo dei suoi denti.
— Me la sto cavando alla grande — replicò Case, e sogghignò come un teschio. — Superbene. — Si lasciò cadere sulla sedia davanti a Ratz con le mani ancora in tasca.
— E te ne vai dentro e fuori da questo bunker portatile fatto di sbronze e di altre esaltazioni, certo. A prova di emozioni più volgari. Giusto?
— Perché non mi molli, Ratz? Hai visto Wage?
— A prova di paura, soprattutto quella di trovarsi soli — continuò il barista. — Ascolta la paura, forse è una tua amica.
— Hai sentito niente di una rissa in una sala giochi in serata, Ratz? Qualcuno si è fatto male?
— Un matto ha ammazzato un ragazzo della sorveglianza. — Scrollò le spalle. — Una ragazza, dicono.
— Devo parlare con Wage, Ratz. Io…
— Ah. — La bocca di Ratz divenne una linea sottile. Stava guardando oltre Case, in direzione dell’ingresso. — Credo che tu stia per riuscirci.
Case ebbe una visione improvvisa delle shuriken nella loro vetrina. Lo speed gli cantava in testa. La pistola che impugnava era scivolosa per il sudore.
— Herr Wage — disse Ratz, allungando adagio il manipolatore rosa, come se si aspettasse che l’altro lo stringesse. — Che immenso piacere vederla. Troppo di rado lei ci onora della sua presenza.
Case girò la testa e sollevò lo sguardo sul volto di Wage. Era una maschera abbronzata e tutt’altro che indimenticabile. Gli occhi verde mare erano trapianti Nikon coltivati in vasca. Wage indossava un vestito di seta color grigio fumo con un semplice braccialetto di platino a ciascun polso. Era fiancheggiato dai suoi scagnozzi, tutti giovanotti quasi identici, braccia e spalle un ammasso di muscoli innestati.