«D’accordo», risposi. Chiuse la portiera e si diresse alla propria auto.
Arrivò prima di me. Giunta di fronte a casa, notai la sua macchina parcheggiata al posto di quella di Charlie. Cattivo segno. Non aveva intenzione di trattenersi.
Io scesi dal pick-up, lui dall’auto, e mi venne incontro. Mi tolse lo zaino di mano. Gesto normale. Ma, anziché aiutarmi a portarlo, lo ripose sul sedile. Gesto tutt’altro che normale.
«Facciamo una passeggiata», propose, impassibile, prendendomi per mano.
Restai in silenzio, senza riuscire a trovare un modo di protestare immediatamente, come avrei desiderato. Così non andava. Brutto segno, brutto segno, ripeteva la voce nella mia testa.
Edward non rimase ad aspettare. Mi portò sul lato destro del giardino, quello che confinava con il bosco. Mi lasciai trascinare, cercando di restare lucida nonostante il panico. In fondo era ciò che volevo, mi dicevo. Era la possibilità di chiarire. E allora perché mi sentivo soffocare dall’angoscia?
Ci fermammo dopo pochi passi sotto gli alberi. Non avevamo nemmeno imboccato il sentiero, vedevo ancora casa mia.
Edward si appoggiò a un tronco e mi fissò con un’espressione indecifrabile.
«Bene, parliamo», dissi. Apparivo molto più coraggiosa di quanto non fossi.
Prese fiato.
«Bella, stiamo per andarcene».
Respirai a fondo. Era una scelta accettabile. Mi credevo pronta. Invece, dovevo sapere.
«Perché proprio adesso? Ancora un anno...».
«Bella, è il momento giusto. Per quanto tempo credi che potremmo restare ancora a Forks? Carlisle dimostra a malapena trent’anni e già ne deve dichiarare trentatré. Comunque vada, non passerà molto tempo prima che ci tocchi ricominciare da capo».
La sua risposta mi lasciò perplessa. Pensavo che andarcene servisse a lasciare in pace la sua famiglia. Che senso aveva partire se loro ci avrebbero seguiti? Lo fissai, sforzandomi di capire.
Lui sostenne il mio sguardo, impassibile.
Un attacco di nausea mi confermò che avevo capito male.
«Hai detto stiamo...», sussurrai.
«Intendo la mia famiglia e me». Scandito parola per parola.
Scuotevo la testa avanti e indietro, meccanicamente, cercando di sgombrarla dai pensieri. Lui restò in attesa, senza dare segni di impazienza. Mi ci volle qualche minuto, prima di riuscire a parlare.
«Okay», dissi. «Verrò con te».
«Non puoi, Bella. Dove stiamo andando... non è il posto adatto a te».
«Il mio posto è dove sei tu».
«Non sono la persona giusta per te, Bella».
«Non essere ridicolo». Il moto di rabbia che avrei voluto sfoderare si manifestò in una richiesta implorante. «Sei la cosa migliore che mi sia capitata, davvero».
«Il mio mondo non è fatto per te», rispose risoluto.
«Ma ciò che è successo con Jasper... non conta niente, Edward... niente!».
«Hai ragione. Era semplicemente un gesto prevedibile».
«L’hai promesso! A Phoenix hai promesso di rimanere...».
«Fino a quando fosse stata la cosa migliore per te», precisò interrompendomi.
«NO! Non dirmi che il problema è la mia anima!», gridai, furiosa con le parole che esplodevano, eppure anche quella sembrava una supplica. «Carlisle mi ha detto tutto, ma non m’interessa, Edward. Non m’interessa! Prenditi pure la mia di anima. Senza te non mi serve: è già tua!».
Prese fiato e per un istante il suo sguardo vagò in basso sul terreno. Sulle sue labbra, una smorfia accennata. Quando finalmente mi guardò di nuovo, era diverso, duro, come se l’oro liquido dei suoi occhi si fosse congelato.
«Bella, non voglio che tu venga con me». Scandì quelle parole lentamente, con cura, lo sguardo freddo sul mio viso, in attesa che cogliessi il senso della frase.
Restammo in silenzio mentre ripetevo tra me le sue parole, come ricercandovi un senso o un’intenzione che mi era sfuggita.
«Tu... non... mi vuoi?».
«No».
Lo fissavo senza capire. Con gli occhi su di me, non abbozzò neanche una scusa. Le sue iridi erano color topazio: duro, chiaro e profondo. Sentivo di poter affondare per chilometri nel suo sguardo, eppure da nessuna parte, in quelle profondità, riuscivo a cogliere qualcosa che contraddicesse ciò che mi ero appena sentita dire.
«Be’, questo cambia le cose». Ero sorpresa dal mio tono di voce calmo e ragionevole. Probabilmente era colpa dello shock. Continuavo a non trovarvi un senso.
Guardò verso gli alberi e riprese a parlare. «Ovviamente, a modo mio, ti amerò sempre. Ma quel che è successo l’altra sera mi ha fatto capire che è ora di cambiare. Vedi, sono... stanco di fingere un’identità che non è mia, Bella. Non sono un essere umano». Tornò a fissarmi e le sembianze glaciali del suo viso perfetto non erano umane. «Ho aspettato troppo, e ti chiedo scusa».
«No». La mia voce era un sussurro: la consapevolezza aveva fatto breccia e scorreva come acido nelle mie vene. «Non farlo».
Mentre mi fissava leggevo nei suoi occhi che le mie parole erano giunte troppo, troppo tardi. Aveva già deciso.
«Tu non sei la persona giusta per me, Bella». Rivoltò la frase di poco prima: non avevo scampo. Sapevo benissimo di non essere abbastanza per lui.
Cercai di dire qualcosa, ma restai in silenzio. Lui attese, paziente, il viso ripulito da ogni emozione. Ci riprovai.
«Se... ne sei certo».
Annuì.
Il mio corpo si paralizzò. Dal collo in giù, non sentivo niente.
«Vorrei chiederti un favore, però, se non è troppo», disse.
Forse sul mio viso comparve qualcosa che per un istante catturò la sua attenzione. Ma prima che potessi capire, tornò a nascondersi dietro quella maschera imperturbabile.
«Tutto quello che vuoi», giurai, con un filo di voce in più.
Mentre lo osservavo, i suoi occhi di ghiaccio si sciolsero. L’oro tornò liquido, fuso, e bruciò nei miei con un’intensità travolgente.
«Non fare niente di insensato o stupido», ordinò, con aria tutt’altro che distaccata. «Capisci cosa intendo?».
Annuii, inerme.
Lo sguardo tornò freddo, di nuovo distante. «Ovviamente penso a Charlie. Ha bisogno di te. Stai attenta a ciò che combini... fallo per lui».
Annuii di nuovo. «Lo farò», sussurrai.
Sembrò un po’ più rilassato.
«In cambio, ti faccio anch’io una promessa», disse. «Prometto che è l’ultima volta che mi vedi. Non tornerò. Non ti costringerò mai più ad affrontare una situazione come questa. Proseguirai la tua vita senza nessuna interferenza da parte mia. Sarà come se non fossi mai esistito».
Probabilmente le mie ginocchia avevano iniziato a tremare, perché d’un tratto vidi gli alberi ondeggiare. Sentivo il sangue pompare nelle orecchie più veloce del solito. La sua voce sembrava lontana lontana.
Sorrise dolcemente: «Non preoccuparti. Sei un essere umano... la tua memoria è poco più che un colino. Il tempo guarisce tutte le vostre ferite».
«E i tuoi ricordi?», chiesi. Sentivo una specie di nodo stretto in gola, che mi soffocava.
«Be’...». Fece una breve pausa. «Non dimenticherò. Ma a quelli come me... basta poco per trovare una distrazione». Sorrise. Un sorriso misurato che non accese i suoi occhi.
Fece un passo indietro. «Tutto qui, credo. Non ti daremo più fastidio».
Il plurale catturò la mia attenzione. Ne fui sorpresa, ormai pensavo di essere incapace di cogliere qualcosa.
«Alice non tornerà». Non so come fece a sentirmi—avevo sillabato la frase, muta—ma probabilmente capì.
Scosse la testa lentamente, sempre guardandomi.
«No. Se ne sono andati tutti. Io sono rimasto soltanto per poterti salutare».
«Alice se n’è andata?». La mia voce era piatta, incredula.
«Voleva salutarti anche lei, ma l’ho convinta che un taglio netto sarebbe stato per te meno doloroso».
Ero sottosopra, non riuscivo a concentrarmi. Le sue parole giravano come un tornado nella mia testa, e mi parve di sentire il medico, all’ospedale di Phoenix, la primavera precedente, mentre mi mostrava le radiografie. Vedi, è una frattura netta, diceva indicando con il dito il mio osso spezzato. Meglio così. Guarirà più velocemente.