Cercai di controllare il respiro. Dovevo farcela, trovare una via d’uscita a quell’incubo.
«Addio, Bella», disse con la solita voce tranquilla e pacifica.
«Aspetta!». Il grido restò soffocato in gola mentre volevo abbracciarlo, convincere le mie gambe insensibili ad andargli incontro.
Sembrava che anche lui volesse abbracciarmi. Ma le sue mani fredde mi strinsero i polsi e li riavvicinarono ai miei fianchi. Si chinò fino a sfiorare con le labbra, per un breve istante, la mia fronte. Chiusi gli occhi.
«Fai attenzione», sussurrò, il suo respiro freddo sulla mia pelle.
Un vento leggero e innaturale si alzò. Spalancai gli occhi. Le foglie di un acero rosso tremarono, scosse dalla brezza delicata del suo passaggio.
Non c’era più.
Con le gambe tremanti, senza rendermi conto di quanto fosse inutile, lo seguii nella foresta. Le tracce del suo cammino erano svanite all’istante. Non c’erano impronte, le foglie erano tornate immobili, ma continuavo a camminare senza pensare. Non riuscivo a smettere. Dovevo continuare a muovermi. Se avessi smesso di cercarlo, sarebbe stata la fine.
Amore, vita, significato... la fine di tutto.
Non smettevo di camminare. Il tempo non contava più mentre mi trascinavo nella vegetazione fitta. Le ore passavano come secondi. Forse il tempo si era fermato, perché ovunque andassi, il bosco era sempre uguale. Iniziai a temere di aver girato a vuoto sullo stesso breve tragitto, ma non mi fermai. Incespicavo di continuo e, più scendeva l’oscurità, più spesso cadevo.
Alla fine inciampai in qualcosa—faceva buio, non avevo idea di cosa fosse—e restai a terra. Mi sdraiai sul fianco, per respirare, e mi raggomitolai tra le felci umide.
In quel momento ebbi la sensazione che fosse passato molto più tempo di quanto pensassi. Non riuscivo a ricordare quando era scesa la sera. Di notte era sempre così buio, là sotto? Almeno un po’ di luce doveva filtrare attraverso le nuvole e la chioma degli alberi...
Ma non quella sera. Quella sera il cielo era totalmente nero. Forse non c’era neanche la luna: era un’eclissi, o una notte di luna nuova.
Luna nuova. Non faceva freddo, ma rabbrividii.
L’oscurità durò a lungo, finché non li udii che mi chiamavano.
Qualcuno gridava il mio nome. Voci attutite, soffocate dalla vegetazione umida che mi circondava, ma era senz’altro il mio nome. Non le riconoscevo. Pensai di rispondere, ma ero stravolta e ci volle parecchio per giungere alla conclusione che dovevo rispondere. A quel punto, i richiami erano cessati.
Più tardi, fu la pioggia a svegliarmi. Probabilmente non mi ero addormentata davvero: mi ero soltanto persa in un torpore senza pensieri, stringendomi con tutte le forze all’annebbiamento che mi impediva di capire ciò che non volevo sapere.
La pioggia mi dava fastidio. Faceva freddo. Sciolsi la presa con cui stringevo le gambe al petto, per coprirmi il viso.
Fu in quel momento che mi sentii di nuovo chiamare. Stavolta le voci erano più lontane, e a tratti sembrava di sentirne tante, che gridavano il mio nome tutte assieme. Cercai di prendere fiato. Sapevo di voler rispondere, ma non credevo che mi avrebbero sentita. Sarei riuscita a urlare con la forza necessaria?
All’improvviso, un altro rumore, sorprendentemente vicino. Come un animale che annusava. Sembrava grosso. Non sapevo se averne paura o no. No, ero troppo annebbiata. Non importava. L’animale che annusava se ne andò.
La pioggia continuò, sentivo una pozza d’acqua formarsi sotto la guancia. Mentre cercavo di raccogliere le forze necessarie a voltarmi, vidi la luce.
Sulle prime era solo un bagliore fioco che si rifletteva sui cespugli in lontananza. Si faceva sempre più brillante e illuminava una porzione di spazio più ampia rispetto a una semplice torcia elettrica. La luce penetrò attraverso il cespuglio più vicino e capii che era una lanterna al propano, ma non vedevo altro. La luce mi accecò per un istante.
«Bella».
Una voce profonda e poco familiare, ma piena di gioia. Non mi stava chiamando, era felice di avermi trovata.
Alzai lo sguardo verso il volto scuro chino sopra di me. A malapena considerai che lo sconosciuto sembrasse così alto perché lui era in piedi e io ancora sdraiata.
«Ti hanno ferita?».
Avevo colto il significato della domanda, ma risposi con uno sguardo sconvolto. Quanto contava il senso delle parole, a quel punto?
«Bella, mi chiamo Sam Uley».
Il suo nome non mi era affatto familiare.
«Charlie mi ha mandato a cercarti».
Charlie? Aveva toccato il tasto giusto, perciò cercai di prestare più attenzione a ciò che diceva. Di Charlie, a differenza di tutto il resto, m’importava.
L’uomo che mi sovrastava mi offrì una mano. Restai a guardarlo, incerta su cosa fare.
I suoi occhi neri mi scrutarono per un secondo, poi si strinse nelle spalle. Con un movimento rapido e agile, mi sollevò da terra e mi prese in braccio.
Restai inerte, stretta a lui, mentre si avviava veloce attraverso la foresta umida. Una parte di me sapeva che avrei dovuto infuriarmi e resistere: uno sconosciuto mi stava trascinando via con sé. Ma non mi era rimasto niente che potesse infuriarsi.
Mi sembrò fosse trascorso poco tempo quando mi accorsi delle luci e del chiacchiericcio di tante voci maschili. Sam Uley rallentò, avvicinandosi al chiasso.
«L’ho trovata!», tuonò.
Il vociare s’interruppe per riprendere con intensità ancora maggiore. Attorno a me si muoveva un confuso vortice di volti. La voce di Sam era l’unica che riuscissi a seguire nel caos, forse perché avevo un orecchio schiacciato contro il suo petto.
«No, non mi sembra ferita», rispose a qualcuno. «Continua soltanto a ripetere: “Non c’è più”».
Lo stavo dicendo ad alta voce? Mi sforzai di chiudere la bocca.
«Bella, tesoro, stai bene?».
Era una voce che avrei riconosciuto ovunque, per quanto in quel momento fosse distorta dalla preoccupazione.
«Charlie?». La mia voce sembrava strana e sottile.
«Sono qui, piccola».
Qualcosa sotto di me si mosse e sentii l’odore di cuoio del giubbotto da capo della polizia di mio padre. Charlie traballò sotto il mio peso.
«Forse è meglio che la tenga io», suggerì Sam Uley.
«Ce la faccio», disse Charlie un po’ affannato.
Camminava lento, a fatica. Avrei voluto dirgli di mettermi giù per lasciarmi camminare, ma non riuscivo a emettere alcun suono.
C’erano torce dappertutto, puntate dalla folla che lo accompagnava. Sembrava una parata. O un funerale. Chiusi gli occhi.
«Siamo quasi a casa, tesoro», mormorava Charlie di tanto in tanto.
Riaprii gli occhi al rumore della serratura. Eravamo sotto il portico di casa, il ragazzone alto e scuro di nome Sam teneva la porta aperta per far passare Charlie, un braccio proteso verso di noi, come se fosse pronto ad aiutarlo nel caso avesse mollato la presa.
Ma Charlie riuscì a entrare con me in braccio e a depositarmi sul divano, in salotto.
«Papà, sono fradicia», protestai con un filo di voce.
«Non importa», rispose burbero. Poi si rivolse a qualcun altro. «Le coperte sono nell’armadio in cima alle scale».
«Bella?», chiese una voce nuova. Guardai l’uomo dai capelli bianchi chino su di me e dopo pochi secondi, a fatica, lo riconobbi.
«Dottor Gerandy?», balbettai.
«Indovinato, cara», rispose. «Sei ferita, Bella?».
Mi ci volle un minuto per pensarci. Ero confusa dal ricordo di Sam Uley che mi faceva la stessa domanda, nel bosco. Soltanto che Sam aveva usato parole diverse: «Ti hanno ferita?». La differenza mi sembrava in qualche modo rilevante.
Il dottor Gerandy era in attesa. Un sopracciglio grigiastro alzato, la fronte solcata da rughe sempre più profonde.