«Non sono ferita», mentii. Ma, per quel che chiedeva lui, le parole corrispondevano al vero.
Mi toccò la fronte con la mano calda e mi sentì il polso con le dita. Guardavo le sue labbra mentre contava, gli occhi fissi sull’orologio.
«Cosa ti è successo?», chiese con tono normale.
Restai impietrita, sentii in gola il sapore del panico.
«Ti sei persa nel bosco?», chiese. Sapevo che c’erano altre orecchie in ascolto. Tre sagome maschili dai volti scuri—probabilmente venivano da La Push, la riserva degli indiani Quileute sulla costa—tra cui Sam Uley, erano in piedi, l’una accanto all’altra, e mi fissavano. C’erano anche il signor Newton assieme a Mike, e il signor Weber, il padre di Angela; le occhiate di questi ultimi erano più furtive di quelle degli sconosciuti. Altre voci profonde rimbombavano dalla cucina e da fuori la porta di casa. Mezza città si era messa alla mia ricerca.
Charlie era il più vicino. Si chinò per udire la mia risposta.
«Sì», sussurrai. «Mi sono persa».
Il dottore annuì, pensieroso, mentre tastava con le dita le ghiandole sotto il mio mento. Il volto di Charlie s’irrigidì,
«Sei stanca?», chiese il dottore.
Annuii e chiusi gli occhi docilmente.
«Penso che tutto sommato stia bene», sentii mormorare dal dottore a mio padre, dopo un momento. «È soltanto esausta. Lasci che ci dorma sopra, domani vengo a controllarla». S’interruppe, guardò l’ora e si corresse: «Be’, oggi, in giornata».
Un cigolio, e i due si allontanarono, alzandosi dal divano.
«È vero?», sussurrò Charlie. Ora le loro voci erano lontane. Mi sforzai per ascoltarli. «Se ne sono andati?».
«Il dottor Cullen ci ha pregati di non dire nulla», rispose Gerandy. «Gli è arrivata un’offerta all’improvviso: ha dovuto scegliere su due piedi. Carlisle non voleva che la sua partenza facesse troppo clamore».
«Potevano avvertire almeno con un po’ di anticipo», bofonchiò Charlie.
Il dottor Gerandy sembrava a disagio. «Sì, in effetti, data la situazione, un preavviso sarebbe stato opportuno».
Non volevo più starli a sentire. Cercai l’orlo della trapunta che qualcuno mi aveva sistemato addosso e me la tirai fin sopra le orecchie.
A sprazzi riprendevo lucidità. Udii i ringraziamenti sussurrati di Charlie mentre i volontari, uno alla volta, se ne andavano. Poi le sue dita sulla fronte e il peso di un’altra coperta. Ogni volta che il telefono squillava, correva a rispondere prima che potessi svegliarmi. Si prodigava in rassicurazioni a bassa voce.
«Sì, l’abbiamo ritrovata. Sta bene. Si è persa. Adesso sta meglio», continuava a ripetere.
Sentii le molle della poltrona cigolare quando Charlie ci si accomodò per la notte.
Qualche minuto dopo, il telefono squillò di nuovo.
Con un lamento, Charlie cercò di issarsi in piedi, poi corse, traballante, verso la cucina. Ficcai la testa ancor di più sotto le coperte, non volevo ascoltare per l’ennesima volta la stessa conversazione.
«Sì», disse Charlie e sbadigliò.
Il suo tono di voce cambiò, alla risposta successiva era molto più lucido. «Dove?». Poi, una pausa. «È sicura che sia fuori dalla riserva?». Altra pausa. «Ma cosa potrebbe bruciare, proprio là?». Sembrava preoccupato, ma anche disorientato. «Senta, faccio una telefonata da quelle parti e controllo».
Drizzai le orecchie mentre componeva il numero.
«Ciao, Billy, sono Charlie. Scusa se chiamo a quest’ora... no, sta bene. Dorme... Grazie, ma non è per questo che chiamo. Ho appena ricevuto una telefonata dalla signora Stanley, dice che dalla finestra del secondo piano vede delle fiamme verso la scogliera, ma io davvero... Ah!». All’istante, la sua voce si fece più energica: per irritazione... o rabbia? «E perché fanno una cosa del genere? Ah, ecco. Davvero?». Era sarcastico. «Be’, non scusarti con me. Sì, sì. Bada soltanto che le fiamme non si propaghino... lo so, lo so, mi sorprende che siano riusciti ad accenderli con questo tempo».
Charlie tacque, poi aggiunse di malavoglia: «Grazie per avere mandato Sam e i ragazzi. Avevi ragione: conoscono la foresta meglio di noi. È stato Sam a trovarla, perciò sono in debito... Sì, ci sentiamo più tardi», aggiunse, sempre con tono cupo, prima di riattaccare.
Charlie balbettò qualche parola incoerente, mentre sgattaiolava di nuovo in salotto.
«C’è qualcosa che non va?», chiesi.
Corse al mio fianco.
«Scusa se ti ho svegliata, piccola».
«Un incendio?».
«Niente di che», disse per rassicurarmi. «Solo qualche falò sugli scogli».
«Falò?», chiesi. Il mio tono di voce non era curioso, solo smorto.
Charlie aggrottò le sopracciglia. «Bravate dei ragazzi della riserva», spiegò.
«Perché?», chiesi inebetita.
Sentivo che non voleva rispondere. Abbassò lo sguardo sul pavimento, tra le sue ginocchia. «Festeggiano la novità», disse amareggiato.
C’era una sola novità a cui potessi pensare, volente o nolente. E subito ricomposi il puzzle. «Perché i Cullen se ne sono andati», sussurrai. «I Cullen non piacciono a quelli di La Push... me ne ero dimenticata».
I Quileute si tramandavano certe superstizioni a proposito dei “freddi”, i bevitori di sangue nemici della tribù, così come leggende che parlavano della grande inondazione e dei loro antenati licantropi. Per la maggior parte di loro erano soltanto racconti e storie popolari. Ma qualcuno ci credeva. Per esempio Billy Black, il vecchio amico di Charlie, benché addirittura suo figlio Jacob le giudicasse stupide superstizioni. Billy mi aveva avvertita di stare lontana dai Cullen...
Il nome stuzzicò qualcosa dentro di me, qualcosa che con gli artigli tentava di riaffiorare in superficie, qualcosa che non sapevo come affrontare.
«Che storia ridicola», sbottò Charlie.
Restammo in silenzio per qualche istante. Fuori dalla finestra il cielo non era più buio. Da qualche parte, al di là della pioggia, sorgeva il sole.
«Bella?», chiese Charlie.
Lo guardai, a disagio.
«Ti ha lasciata sola nel bosco?».
Cercai di schivare la domanda. «Come avete fatto a trovarmi?». La mia mente cercava di scansarsi di fronte all’inevitabile consapevolezza che, con rapidità, stava raggiungendomi.
«C’era il biglietto», rispose Charlie, sorpreso. Infilò una mano nella tasca dei jeans e ne estrasse un foglietto stropicciatissimo. Era sporco e umido, spiegazzato dalle mille volte in cui era stato aperto e ripiegato. Lo stirò per bene e lo mise in mostra come una prova decisiva. La scrittura disordinata era straordinariamente simile alla mia.
«Vado a fare due passi con Edward, su per il sentiero», diceva. «Torno presto, B».
«E quando non ti ho vista tornare, ho chiamato i Cullen, ma non ha risposto nessuno», disse Charlie, cupo. «Allora ho provato in ospedale e il dottor Gerandy mi ha spiegato che Carlisle se n’era andato».
«Ma dove?», mormorai.
Mi guardò fisso. «Edward non te l’ha detto?».
Scossi la testa, ritraendomi. Udire il suo nome scatenò la cosa che mi artigliava da dentro: un dolore che mi tolse il respiro e mi stupì per la sua forza.
Charlie rispose guardandomi dubbioso. «Carlisle ha avuto un incarico presso un grosso ospedale di Los Angeles. Immagino che lo abbiano ricoperto di denaro».
La soleggiata Los Angeles. Che in realtà era l’ultimo posto in cui avrebbero potuto rifugiarsi. Ripensai all’incubo dello specchio... la luce del sole, accesa, riflessa dalla sua pelle...
Al ricordo del suo viso mi sentii squarciare da un senso di agonia.
«Voglio sapere se Edward ti ha lasciata da sola laggiù, nel cuore del bosco», insistette Charlie.
Scossi la testa, agitata, sconvolta dal bisogno di sfuggire al dolore. «È stata colpa mia. Quando se n’è andato ero sul sentiero, non lontano da casa... ma ho cercato di seguirlo»,
Charlie fece per dire qualcosa; come una bambina, mi coprii le orecchie. «Non riesco a parlarne, papà. Voglio andare in camera mia».
Prima che potesse rispondere, scattai dal divano e, barcollando, salii le scale.