Qualcuno era entrato in casa e aveva lasciato a Charlie il biglietto. Nell’istante in cui me ne resi conto, un orribile sospetto mi si affacciò alla mente. Mi precipitai nella mia stanza, chiusi la porta a chiave e corsi al lettore CD accanto al letto.
Tutto sembrava identico a come l’avevo lasciato. Pigiai il coperchio del lettore. La chiusura scattò e lo sportello si aprì.
Era vuoto.
L’album di Renée era per terra, accanto al letto, dove l’avevo lasciato. Sollevai la copertina con mano tremante.
Mi bastò sfogliare la prima pagina. Fissata agli angoli di metallo non c’era nessuna foto. Sul foglio bianco spiccava la mia scrittura: «Edward Cullen, cucina di Charlie, 13 settembre».
Non andai oltre. Di sicuro aveva fatto le cose per bene.
Sarà come se non fossi mai esistito, me lo aveva promesso.
Sentii il pavimento di legno liscio sotto le ginocchia, poi sul palmo delle mani e infine contro la guancia. Speravo di svenire, ma purtroppo non persi conoscenza. Le ondate di dolore da cui prima ero stata appena sfiorata ora si innalzavano di fronte a me e mi si infrangevano addosso, trascinandomi giù.
E dal fondo non riemersi.
Ottobre
Novembre
Dicembre
Gennaio
4
Risveglio
Il tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in maniera disuguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa. Persino per me.
Charlie sbatté il pugno sul tavolo. «Basta, Bella! Ti rispedisco a casa».
Alzai gli occhi dai cereali che rimescolavo meditabonda invece di mangiarli, e lo guardai sbalordita. Non avevo seguito la conversazione—in realtà, non mi ero neanche accorta che stessimo parlando—e non capivo a cosa si riferisse.
«Sono già a casa», mormorai confusa.
«Ti mando da Renée, a Jacksonville», precisò.
Mi guardò esasperato, mentre rimuginavo sul senso della sua frase.
«Cosa ho fatto?». Mi sentii crollare. Non era giusto. Da quattro mesi il mio comportamento era irreprensibile. Dopo la prima settimana, di cui nessuno di noi parlava più, non avevo perso un giorno di scuola né di lavoro. I miei voti erano perfetti. Non infrangevo mai il coprifuoco... be’, non facevo mai nulla che mi costringesse a infrangerlo. Soltanto in rare occasioni servivo avanzi anziché cucinare.
Charlie aggrottò le sopracciglia.
«Non hai fatto niente. Questo è il problema. Non fai niente, mai».
«Preferisci che mi cacci nei guai?», chiesi, stralunata e confusa. Mi sforzai di prestare attenzione. Non era facile. Ero talmente abituata a distrarmi, che mi sentii le orecchie otturate.
«Un guaio sarebbe meglio di questa situazione... tieni sempre il muso!».
Mi sentii punzecchiata. Avevo badato a evitare qualsiasi tipo di fastidio, incluso il broncio.
«Non tengo nessun muso».
«Ho sbagliato parola», si sforzò di ammettere. «Tenere il muso significherebbe comunque che fai qualcosa. Sei... come spenta. Ecco cosa volevo dire».
L’accusa mi centrò in pieno. Sospirai e cercai di rispondere con maggiore energia.
«Mi dispiace, papà». Le scuse suonavano poco convincenti persino a me. Avevo pensato di poterlo raggirare. L’obiettivo dei miei sforzi era evitare che Charlie soffrisse. Che delusione pensare che non fosse servito a niente.
«Non voglio che ti scusi».
«Allora dimmi cosa vuoi che faccia».
«Bella...», disse, e restò in attesa di una mia reazione. «Tesoro, non sei la prima a vivere una situazione del genere, lo sai anche tu».
«Certo». L’espressione con cui accompagnai le parole era debole e poco efficace.
«Senti, piccola. Penso che... forse hai bisogno d’aiuto».
«In che senso?».
Fece una pausa e riformulò la frase. «Quando tua madre se ne andò», disse, cupo, «e ti prese con sé...», fece un respiro profondo. «Be’, quello fu un brutto periodo, per me».
«Lo so, papà», mormorai.
«Ma riuscii a cavarmela», precisò. «Tesoro, tu non te la stai cavando. Ho aspettato, ho sperato che migliorasse». Mi guardò e abbassai gli occhi all’istante. «Penso che sappiamo entrambi che non è migliorato per nulla».
«Sto bene».
Ignorò la risposta. «Forse, be’... forse dovresti parlarne con qualcuno. Un professionista».
«Vuoi che vada da uno strizzacervelli?». Il mio tono di voce si fece più pungente quando capii dove voleva arrivare.
«Forse ti aiuterebbe».
«O forse no, anzi, per niente».
Non sapevo granché di psicanalisi, ma ero abbastanza sicura che non funzionava se il paziente non decideva di essere completamente sincero. Certo, avrei anche potuto dire la verità... se avessi voluto passare il resto dei miei giorni in una stanza con le pareti imbottite.
Scrutò la mia espressione ostinata e cambiò strategia.
«Io non ce la faccio, Bella. Forse tua madre...».
«Ascolta», dissi impassibile. «Se vuoi, esco anche stasera. Chiamo Jess o Angela».
«Non è ciò che voglio», ribatté, frustrato. «Non credo di poter resistere, se continui a sforzarti in quel modo. Non ho mai visto nessuno sforzarsi quanto te. E ci sto male».
Cercai di passare per stupida, fissando il tavolo. «Non capisco, papà. Prima perdi la pazienza perché non faccio niente, poi dici che non vuoi che esca».
«Voglio che tu sia felice... anzi, no, nemmeno. Voglio soltanto che tu non sia triste. Credo che te la passeresti meglio se te ne andassi da Forks».
I miei occhi si accesero della prima fiammella di vitalità da chissà quanto tempo.
«Non me ne vado», dissi.
«Perché no?».
«È l’ultimo semestre di scuola, manderei tutto a monte».
«Sei una brava studentessa, te la caverai».
«Non voglio dare fastidio a mamma e a Phil».
«Tua madre muore dalla voglia di riaverti».
«In Florida fa troppo caldo».
Sbatté di nuovo il pugno sul tavolo. «Sappiamo entrambi, e molto bene, cosa sta succedendo, Bella, e non è affatto positivo per te». Riprese fiato. «Sono passati mesi. Niente telefonate, niente lettere, nessun contatto. Non puoi continuare ad aspettarlo».
Lo guardai in cagnesco. Il mio volto si riscaldò. Non ricordavo più l’ultima volta in cui ero arrossita. Certi argomenti erano tabù e lui lo sapeva bene.
«Non sto aspettando niente. Non mi aspetto niente», dissi con voce bassa e monotona.
«Bella...», balbettò Charlie, la voce velata dall’emozione.
«Devo andare a scuola», lo interruppi, alzandomi e sparecchiando il tavolo dalla colazione che non avevo nemmeno toccato. Buttai la tazza nel lavandino senza nemmeno risciacquarla. Non avrei sopportato una parola di più.
«Mi organizzo con Jessica», dissi, mentre infilavo lo zaino, attenta a non guardarlo in faccia. «Può darsi che non torni a cena. Andiamo a Port Angeles a vedere un film».
Uscii prima che potesse rispondere.
Nella fretta di fuggire da Charlie, fui tra i primi ad arrivare a scuola. L’unico vantaggio fu che trovai un parcheggio molto comodo. Lo svantaggio, invece, era che avevo tempo da perdere, mentre cercavo di evitare con tutte le mie forze i tempi morti.
Prima che potessi ripensare alle parole di Charlie, tirai fuori dallo zaino il libro di matematica. Lo aprii alla pagina della lezione del giorno e cercai di capirci qualcosa. Leggere matematica era anche peggio che sentirla spiegare, però stavo migliorando. Nei sette mesi precedenti, avevo passato su quel libro dieci volte il tempo che gli dedicavo di solito. Di conseguenza, i miei voti tendevano tutti al massimo. Ero sicura che il professor Varner fosse convinto che quei miglioramenti erano dovuti alla sua abilità di insegnante. Se era contento così, non gli avrei rovinato la festa.
Mi sforzai di concentrarmi sul libro finché il parcheggio non si riempì e alla fine fui costretta a correre per arrivare in tempo all’aula di inglese. Stavamo studiando La fattoria degli animali, argomento semplice. Mi andava bene anche il comunismo: era un diversivo ben accetto, dopo i romanzi interminabili di cui era infarcito il programma. Mi sedetti al mio posto, lieta di essere distratta dalla lezione del professor Berty.