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Mentre guidavo verso la scuola, tentai di ricompormi. Il volto della nonna—non osavo pensare di poter essere io—non mi usciva dalla testa. Fui invasa dallo sconforto finché non entrai nel familiare parcheggio della scuola superiore di Forks e notai Edward, immobile, appoggiato alla sua Volvo argentata e lucida, come un tributo marmoreo a un oscuro dio pagano della bellezza. Il sogno non gli aveva reso giustizia. Ed era lì, che aspettava me, come un qualsiasi altro giorno.

Ogni pensiero cupo sparì per qualche istante, rimpiazzato dalla meraviglia. Sei mesi insieme, e ancora non riuscivo a credere di meritare una fortuna così grande.

Di fianco a lui c’era sua sorella Alice, anche lei in mia attesa.

Ovviamente, Edward e Alice non erano veri fratelli (secondo la versione di Forks della loro storia, i ragazzi dei Cullen erano stati tutti adottati dal dottor Carlisle e da sua moglie Esme, di certo troppo giovani per avere figli adolescenti), ma la loro pelle aveva lo stesso pallore, gli occhi erano della stessa, singolare tonalità dorata ed erano cerchiati dalle medesime occhiaie profonde e simili a ustioni. Il volto della ragazza era bellissimo, come quello di suo fratello. Chi la sapeva lunga, come me, riconosceva in quei tratti comuni la loro vera essenza.

Alla vista di Alice, che mi aspettava con gli occhi fulvi accesi di entusiasmo e tra le mani un pacchetto quadrato avvolto in carta argentata, mi rabbuiai. Le avevo detto che non volevo niente, niente, né regali né attenzioni, per il mio compleanno. Ovviamente, poco le importava del mio desiderio.

Sbattei la portiera del mio pick-up Chevy del ’53, scatenando una pioggia di briciole di ruggine sull’asfalto umido, e mi avvicinai lentamente ai fratelli in attesa. Alice mi venne incontro, con il suo raggiante viso da folletto incorniciato dai capelli neri disordinati.

«Buon compleanno, Bella!».

«Sssh!», sibilai, guardandomi attorno per assicurarmi che nessuno l’avesse sentita. L’ultima cosa che desideravo era un qualsiasi genere di festeggiamento della disgrazia.

Lei mi ignorò. «Il regalo lo apri adesso o più tardi?», chiese impaziente, mentre raggiungevamo Edward.

«Niente regali», borbottai.

Finalmente sembrò accorgersi del mio umore. «Va bene... più tardi, allora. Ti è piaciuto l’album che ti ha regalato tua madre? E la macchina fotografica di Charlie?».

Sospirai. Naturalmente sapeva già cos’avevo ricevuto in regalo. Edward non era l’unico, in famiglia, a possedere qualità fuori dalla norma. Alice, probabilmente, aveva “visto” i progetti dei miei genitori nel momento esatto in cui li avevano concepiti.

«Sì. Grande».

«Secondo me è una bella idea. L’ultimo anno di scuola arriva una volta sola nella vita. Vale la pena di documentare l’avvenimento».

«Tu quanti ultimi anni di scuola hai già vissuto?».

«Questo è un altro discorso».

Raggiungemmo Edward, che mi offrì la mano. La accettai volentieri, dimenticando per un breve istante l’umore tetro. Come al solito, la sua pelle era liscia, tonica e freddissima. Mi strinse le dita con delicatezza. Fissai i suoi occhi liquidi di topazio e anche il mio cuore si strinse, con molta meno delicatezza. Lui si accorse del battito zoppicante, e tornò a sorridere.

Sollevò la mano libera e, parlandomi, sfiorò il contorno delle mie labbra con la punta fredda di un dito. «Quindi, come stabilito, ho il divieto di augurarti buon compleanno, ho inteso bene?».

«Hai inteso benissimo». Il suo modo di parlare fluido e articolato era per me inimitabile. Ce l’avrei fatta solo se fossi nata in un secolo precedente.

«Grazie per la conferma». Con la mano sistemò i capelli bronzei, spettinati. «Speravo che avessi cambiato idea. Di solito la gente adora compleanni, regali e cose del genere».

La risata argentina di Alice squillò come tanti campanellini. «Vedrai che sarà un divertimento. Oggi tutti saranno gentili e faranno quello che dici tu, Bella. Cosa potrebbe succedere di tanto brutto?». Voleva essere una domanda retorica.

«Che sto invecchiando», risposi con voce molto meno ferma di quanto volessi.

Il sorriso di Edward, al mio fianco, si appiattì rigido.

«Diciotto anni non sono tanti», rispose Alice. «Sbaglio, o di solito le donne aspettano di averne ventinove, prima di farsi rovinare l’umore da un compleanno?».

«Sono più vecchia di Edward», mormorai.

Lui sospirò.

«Tecnicamente, sì», aggiunse Alice, senza perdere il buonumore. «Ma di un annetto soltanto».

Intanto immaginavo che... se fossi stata sicura del futuro che desideravo, sicura di poter passare l’eternità assieme a Edward, ad Alice e agli altri Cullen (preferibilmente non nei panni di una vecchietta rugosa)... un anno o due di differenza non sarebbero stati così importanti. Ma Edward si opponeva con forza a qualsiasi futuro che contemplasse la mia trasformazione. Qualsiasi futuro che mi rendesse uguale a lui: immortale.

L’aveva chiamata “impasse”.

Onestamente, non riuscivo a capire le sue ragioni. Che c’era di così grandioso nell’essere mortali? Vivere da vampiro non mi sembrava una prospettiva così terribile, almeno se pensavo a come vivevano i Cullen.

«A che ora vieni a trovarci?», continuò Alice per cambiare discorso. A giudicare dall’espressione, stava per farmi esattamente la proposta che più desideravo evitare.

«Non sapevo di avere una visita in programma».

«Oh, sii buona!», si lamentò. «Non vorrai rovinarci il divertimento, vero?».

«Pensavo che al mio compleanno si parlasse dei miei desideri».

«Vado a prenderla da Charlie subito dopo la scuola», le rispose Edward, senza badare a me.

«Devo andare al lavoro», protestai.

«Invece no», rispose soddisfatta Alice. «Ne ho già parlato con la signora Newton. Oggi ti sostituisce lei in negozio. Mi ha chiesto di farti gli auguri».

«Ma... non posso venire», balbettai in cerca di una scusa. «Io, be’, non ho ancora guardato Romeo e Giulietta, per la lezione di inglese».

Alice sbuffò. «Ma se lo sai a memoria».

«Il professor Berty dice che per apprezzarlo davvero dobbiamo vederlo rappresentato: com’era nelle intenzioni di Shakespeare».

Edward alzò gli occhi al cielo.

«Hai già visto il film», sbottò Alice.

«La versione degli anni Sessanta no. Secondo Berty è la migliore».

Alla fine, Alice perse il sorriso allegro e mi lanciò un’occhiataccia. «Con le buone o con le cattive, Bella, in un modo o nell’altro...».

Edward interruppe la minaccia. «Tranquilla, Alice. Se Bella desidera vedere un film, lascia che lo faccia. È il suo compleanno».

«Appunto», commentai.

«Arriveremo entro le sette», aggiunse lui. «Così avrai un po’ di tempo in più per prepararti».

La risata di Alice tornò a squillare. «Così va meglio. Allora ci vediamo stasera, Bella! Vedrai che ci divertiremo». Sorrise sfoderando i denti perfetti e brillanti, e mi diede un buffetto sulla guancia prima di dirigersi a passi di danza verso la prima lezione senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere.

«Ti prego, Edward...», cercai di implorarlo, ma lui mi zittì posandomi un dito sulle labbra.

«Ne parliamo dopo. Rischiamo di fare tardi».

Nessuno si preoccupò di guardarci mentre occupavamo i soliti posti in fondo all’aula (ormai condividevamo quasi tutte le lezioni; Edward era stupefacente nell’ottenere favori dalle impiegate dell’amministrazione). Ormai stavamo insieme da un periodo di tempo sufficiente per essere esclusi dai pettegolezzi. Nemmeno Mike Newton sprecava più lo sguardo malinconico che mi faceva sentire un po’ in colpa. Mi salutava sorridendo ed ero felice che si fosse arreso all’idea che fossimo semplici amici. Durante l’estate Mike era cambiato: il suo viso si era smagrito, le guance erano meno piene, e aveva cambiato taglio di capelli; anziché ispida, portava la chioma biondo cenere più lunga, in un apparente disordine fissato con il gel. Non era difficile capire a chi si ispirasse; ma il look di Edward non lo si poteva ottenere per mera imitazione.