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«Cosa ti è saltato in mente?», sbottò Jessica. «Non li conosci... e se fossero stati degli psicopatici?».

Feci spallucce, sperando che lasciasse perdere. «Pensavo di conoscere quel tizio».

«Sei proprio strana, Bella Swan. Non ti riconosco più».

«Scusa». Non sapevo cos’altro rispondere.

Ci avvicinammo al McDonald’s in silenzio. Di sicuro Jess avrebbe preferito spostarsi in auto, anziché percorrere a piedi la breve distanza dal cinema, per poter approfittare del McDrive. A quel punto, anche lei come me non vedeva l’ora che la serata finisse.

Mentre mangiavamo, cercai più volte di iniziare una conversazione, ma Jessica non cooperava. Doveva sentirsi profondamente offesa.

Quando tornammo in auto, sintonizzò la radio sulla sua stazione preferita a un volume altissimo, per coprire qualsiasi tentativo di chiacchiere.

Per ignorare la musica non fui costretta a sforzarmi, come al solito. Benché la mia mente, per una volta, non fosse del tutto offuscata e vuota, avevo troppe cose a cui pensare per concentrarmi sui testi delle canzoni.

Restai in attesa dell’annebbiamento, o della sofferenza. Il dolore sarebbe tornato. Avevo infranto le mie regole personali: anziché tenermi lontana dai ricordi, ero andata loro incontro, pronta ad accoglierli. Avevo sentito la sua voce, nitida, nella testa. Mi sarebbe costato caro, ne ero sicura. Soprattutto se non fossi riuscita a sprofondare di nuovo nella mia nebbia protettiva. Ero troppo vigile, e ciò mi impauriva.

Ma l’emozione più forte era adesso il senso di sollievo; un sollievo che nasceva davvero dal profondo.

Per quanto cercassi di non pensare a lui, non mi sforzavo di dimenticare davvero. Lottavo—nel cuore della notte, quando l’insonnia indeboliva e abbatteva le mie difese—contro il timore che tutto mi stesse realmente sfuggendo. Che la mente fosse un colino e che un giorno non avrei più ricordato il colore dei suoi occhi, la sensazione della sua pelle fresca, o la grana della voce. Non potevo pensarci, ma dovevo ricordare. Perché c’era una sola cosa alla quale dovevo credere se volevo continuare a vivere: la certezza della sua esistenza. Per me era tutto. Al resto avrei saputo resistere. A patto che lui fosse ancora vivo e reale.

Ecco perché ero più intrappolata che mai a Forks, e perché avevo litigato con Charlie quando mi aveva proposto di cambiare aria. In realtà, poco importava: non dovevo aspettarmi nessun ritorno.

Se fossi andata a Jacksonville, o in un altro posto qualsiasi, pieno di luce e poco familiare, come avrei fatto a credere alla sua esistenza? In un luogo in cui non fossi riuscita a immaginarlo, quella certezza avrebbe rischiato di svanire... e io non sarei sopravvissuta.

Ricordare era vietato, dimenticare mi faceva paura; era un confine difficile da attraversare.

Infine Jessica parcheggiò di fronte a casa mia. Che sorpresa: il viaggio non era durato molto, ma per quanto breve non avrei mai pensato che Jess potesse rimanere zitta così a lungo.

«Grazie per avermi accompagnata», dissi mentre aprivo la portiera. «Mi sono... divertita». Speravo che “divertita” fosse la parola giusta.

«Certo», mormorò lei.

«Scusami per... dopo il film».

«Non importa, Bella». Lanciò un’occhiata verso la strada. Sembrava che la rabbia si fosse accumulata dentro di lei piuttosto che scemare durante il viaggio di ritorno.

«Ci vediamo lunedì?».

«Okay, ciao».

Rinunciai a insistere e chiusi la portiera. Lei ripartì via senza degnarmi di un sguardo.

Mi bastò entrare in casa per dimenticare.

Charlie mi aspettava in mezzo al corridoio, le braccia conserte e lo sguardo severo.

«Ciao, papà», dissi distratta, aggirandolo per correre subito sulle scale. Avevo pensato a lui troppo a lungo e volevo tornare di sopra prima di subirne le conseguenze.

«Dove sei stata?».

Guardai mio padre, sorpresa. «Al cinema con Jessica, a Port Angeles. Come ti ho detto stamattina».

Borbottò qualcosa.

«Tutto a posto?».

Studiò la mia espressione, spalancando gli occhi come se qualcosa lo avesse sconcertato. «Sì, tutto a posto. Vi siete divertite?».

«Certo», risposi. «Abbiamo visto un sacco di zombie mangiarsi la gente. Davvero bello».

M’incenerì con lo sguardo.

«’Notte, papà».

Mi lasciò passare e corsi in camera.

Pochi minuti dopo m’infilai sotto le coperte, rassegnata a subire il ritorno del dolore.

Mi sentivo menomata, come se qualcosa mi avesse scavato una voragine nel petto, asportato gli organi vitali e lasciato cicatrici malconce e mai guarite, che malgrado il passare del tempo non smettevano di pulsare e sanguinare. Razionalmente, sapevo che i miei polmoni erano ancora intatti, eppure mi sentivo soffocare e la testa mi girava come se gli sforzi per prendere aria fossero vani. Di sicuro anche il mio cuore batteva, ma non ne udivo le pulsazioni; avevo le mani fredde e intorpidite. Mi raggomitolai e incrociai le braccia strette per non sentirmi sbriciolare. Cercavo l’annebbiamento, il ripudio di me stessa, ma non riuscivo a raggiungerlo.

Eppure, capii che potevo sopravvivere. Ero vigile, sentivo il dolore—il senso di perdita che bruciava e s’irradiava dal mio petto in tremende ondate di sofferenza che si abbattevano contro il mio corpo e nella testa—ma me la sarei cavata. Sarei sopravvissuta. Non perché il dolore si fosse indebolito con il passare del tempo, ma perché a quel punto ero divenuta abbastanza forte da reggerlo.

Qualunque cosa fosse successa quella sera—merito degli zombie, dell’adrenalina o delle allucinazioni—mi aveva risvegliata.

Per la prima volta dopo tanto tempo, non sapevo cosa aspettarmi dal nuovo giorno.

5

Imbrogliona

«Bella, se vuoi, vai pure», mi propose Mike, guardandomi di sbieco senza mettermi davvero a fuoco. Chissà da quanto tempo andava avanti così, senza che me ne fossi accorta.

Dai Newton era un pomeriggio pigro. Al momento, in negozio c’erano soltanto due clienti, a giudicare dalla loro conversazione si trattava di escursionisti. Con loro Mike aveva trascorso un’ora a valutare i pregi e i difetti di due marche di zaini leggeri. Ma a un certo punto i due erano passati dalla discussione sui prezzi a una specie di gara di aneddoti tra esploratori. Mike sfruttò il momento di distrazione per defilarsi.

«Ma no, resto volentieri», risposi. Non ero ancora riuscita ad affondare nel mio guscio protettivo di annebbiamento e tutto, quel giorno, mi sembrava stranamente vicino e rumoroso, come se mi fossi tolta dei tappi di cotone dalle orecchie. Cercavo di non badare alle risate degli escursionisti, ma non ci riuscivo.

«Dico sul serio», sbottò l’uomo tarchiato con la barba rossastra, che spiccava curiosamente rispetto ai capelli castano scuro. «A Yellowstone ho visto i grizzly piuttosto da vicino, ma erano niente in confronto a quella bestia». Aveva i capelli arruffati e sembrava indossare gli stessi abiti da almeno qualche giorno. Era appena sceso dalle montagne.

«Impossibile. Orsi neri così grossi non se ne trovano. I grizzly che hai visto tu saranno stati dei cuccioli». Il secondo escursionista era alto e magro, con il viso abbronzato, cotto e seccato dal sole e dal vento. La sua pelle sembrava di cuoio.

«Davvero, Bella, appena questi due se ne vanno, io chiudo», bisbigliò Mike.

«Se vuoi che me ne vada...». Mi strinsi nelle spalle.

«A quattro zampe, era più alto di te», insisteva il barbuto, mentre raccoglievo le mie cose. «Grosso come una casa e nero come la pece. Andrò ad avvertire il ranger. Meglio spargere la voce: bada bene, non era su in montagna. Stava a pochi chilometri dall’inizio del sentiero».

Faccia di cuoio rise e alzò gli occhi al cielo. «Lasciami indovinare: stavi tornando a casa? Non mangiavi cibo decente e non dormivi su un vero letto da giorni, vero?».

«Ehm, scusa, come ti chiami... Mike?», disse il barbuto, guardando verso di noi.