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«Ci vediamo lunedì», farfugliai.

«Mi dica», rispose Mike allontanandosi.

«Dimmi, ultimamente hai sentito parlare di orsi neri, qui in giro? Un avviso, o qualcosa del genere?».

«No, signore. Ma è sempre meglio tenersi a distanza e conservare bene il cibo. Le ho mostrato i nuovi recipienti anti-orso? Pesano meno di un chilo...».

Le porte scorrevoli si aprirono e io uscii sotto la pioggia. Rannicchiata nella giacca a vento, corsi verso il pick-up. Anche la pioggia che martellava sul cofano faceva più rumore del solito, ma il ruggito del motore soffocò subito tutto il resto.

Non volevo tornare a casa di Charlie, ancora deserta. La sera precedente era stata particolarmente pesante e non desideravo affatto rivisitare la scena delle mie sofferenze. Non era finita neanche dopo che il dolore si era placato abbastanza da lasciarmi dormire. Come avevo detto a Jessica dopo il film, era sicuro che avrei avuto degli incubi.

Tutte le mie notti erano popolate da incubi. Anzi, dall’incubo, sempre lo stesso. In teoria, dopo tanti mesi avrei dovuto esserne annoiata, se non immune. Invece, ogni volta mi terrorizzava e terminava solo quando mi svegliavo urlando. Charlie non entrava neanche più in camera per controllare cosa fosse accaduto, terrorizzato che qualcuno si fosse intrufolato per strangolarmi o qualcosa del genere. Ormai ci si era abituato.

Probabilmente nessun altro si sarebbe lasciato spaventare da un incubo del genere. Non c’erano presenze che spuntavano dal buio a urlare «Buh!», non c’erano zombie, né fantasmi, né maniaci. Non c’era proprio niente. Era il niente. Soltanto il labirinto infinito di alberi coperti di muschio, avvolti in un silenzio così profondo e insopportabile da schiacciarmi i timpani. L’oscurità era quella del tramonto in un giorno nuvoloso e la poca luce che filtrava confermava che non c’era niente da vedere. Mi affannavo nella penombra senza una direzione, cercando, cercando, cercando sempre più freneticamente, e più tentavo di correre veloce, più la mia goffaggine aumentava... Poi arrivava il momento—sentivo che si avvicinava ma non riuscivo mai a svegliarmi in anticipo—in cui non ricordavo più cosa stessi cercando. In cui capivo che non c’era niente né da cercare né da trovare. Che non c’era mai stato nient’altro che quel bosco vuoto e tetro, e niente ci sarebbe stato mai, per me... nient’altro che niente...

Più o meno in quel momento iniziavano le urla.

Guidavo senza pensare a dove andassi—vagando per strade secondarie, evitando il percorso verso casa—perché non avevo una meta.

Desideravo potermi sentire di nuovo annebbiata, ma non ricordavo come ci fossi riuscita. L’incubo punzecchiava la mia mente, scatenando pensieri dolorosi. Non volevo ricordare la foresta. Malgrado i tentativi di scrollarmi di dosso quell’immagine, sentii le lacrime riempirmi gli occhi e le fitte di dolore bruciare attorno alla voragine che mi squarciava il petto. Levai una mano dal volante, incrociai le braccia e mi strinsi forte per non cadere a pezzi.

Sarà come se non fossi mai esistito. Le parole mi scorrevano nella mente, ma senza la chiarezza perfetta dell’allucinazione della sera precedente. Erano soltanto parole mute, stampate su una pagina immaginaria. Solo parole, ma riaprirono lo squarcio e fui costretta ad affondare il piede sul freno. Non potevo guidare in quello stato.

Mi raggomitolai con la faccia contro il volante e cercai di calmarmi, ma mi mancava l’aria.

Mi chiesi quanto sarebbe durata. Forse, un giorno, dopo tanti anni—se il dolore fosse diminuito fino a poterlo sopportare—sarei riuscita a ripensare a quella manciata di mesi, i più belli della mia vita. E, se la sofferenza mi avesse mai dato tregua, ero certa che gli sarei stata riconoscente del tempo che mi aveva concesso. Era più di quanto chiedessi, più di quanto meritassi. Forse, un giorno, sarei riuscita a vederla così.

Ma se lo squarcio non si fosse mai richiuso? Se le ferite non fossero guarite? Se il danno si fosse dimostrato permanente e irreversibile?

Mi strinsi forte tra le braccia. Come se non fosse mai esistito, pensai, angosciata. Che promessa stupida e impossibile! Poteva rubare le foto e riprendersi i regali, ma ciò non riportava affatto la situazione a prima che ci conoscessimo. Le prove materiali erano l’elemento più insignificante di quel periodo. Io ero cambiata: ciò che ero dentro, ormai, era diverso, quasi irriconoscibile. Persino il mio aspetto esteriore era un altro: il viso giallastro o pallido, eccezion fatta per le occhiaie violacee, eredità degli incubi. Il contrasto tra gli occhi scuri e il pallore della pelle era tale che—se fossi stata bellissima, e guardandomi da lontano—avrei persino potuto passare per un vampiro. Ma non ero bellissima, perciò probabilmente somigliavo a uno zombie.

Come se non fosse mai esistito? Roba da pazzi. Una promessa che non sarebbe mai stato capace di mantenere, una promessa che aveva infranto subito dopo averla fatta.

Battei la testa contro il volante, cercando di contrastare le fitte di dolore.

Mi sentii una sciocca per essermi preoccupata di mantenere la mia promessa. Dove stava la logica nell’ostinarsi a rispettare un accordo già violato dall’altra parte? A chi interessava se mi comportavo da incosciente o da stupida? Niente m’impediva di essere incosciente, niente mi proibiva di fare la stupida.

Risi tra me e me, sinistramente, boccheggiando. Vita spericolata a Forks... che immagine assurda.

Ma così riuscii a distrarmi e la distrazione attenuò il dolore. Il respiro si fece regolare e potei allungarmi sul sedile. Faceva freddo, ma avevo la fronte madida di sudore.

Mi concentrai su quell’idea assurda per tenere a bada lo strazio dei ricordi. Una vita spericolata a Forks richiedeva un sacco di creatività, forse più di quanta ne avessi. Ma come mi sarebbe piaciuto trovare il modo... Forse mi sarei sentita meglio se avessi smesso di aggrapparmi a una promessa infranta. Se anch’io avessi rinnegato il giuramento. Ma in che modo avrei potuto imbrogliare, in quella cittadina innocua? Certo, Forks non era stata sempre innocua, ma a quel punto le sue apparenze non ingannavano più. Era ottusa, era sicura.

Per un minuto interminabile guardai fuori dal parabrezza, rapita da pensieri lenti e pesanti che non riuscivo a dirigere da nessuna parte. Tolsi la chiave dal quadro fermando il cigolio del motore, che chiedeva pietà dopo aver girato a vuoto così a lungo, e scesi sotto la pioggia fine.

Rivoli d’acqua fredda scorrevano tra i miei capelli e mi colavano sulle guance come lacrime. Servì a schiarirmi le idee. Battevo le palpebre per riparare gli occhi dalla pioggia, con lo sguardo perso sulla strada.

Dopo un minuto, capii dove mi trovavo. Avevo parcheggiato a metà del tratto settentrionale di Russell Avenue. Ero ferma di fronte a casa Cheney—il pick-up sbarrava l’ingresso del vialetto—mentre dall’altra parte della via vivevano i Mark. La cosa più sensata sarebbe stata spostare il veicolo e tornare a casa. Non c’era motivo di vagabondare in quel modo, distratta e debole com’ero, una vera minaccia per le strade di Forks. Inoltre, prima o poi qualcuno mi avrebbe notato e lo avrebbe riferito a Charlie.

Mentre prendevo fiato, pronta a tornare indietro, un cartello nel giardino dei Mark catturò la mia attenzione: era un pezzo di cartone appeso alla cassetta delle lettere, su cui appariva una scritta in nero, scarabocchiata a lettere maiuscole.

A volte il destino gioca scherzi piacevoli.

Una coincidenza? O era scritto? Non lo sapevo, ma sembrava un po’ sciocco pensare che il fato avesse assegnato alle motociclette scalcagnate lasciate ad arrugginire nel prato dei Mark, accanto al cartello VENDESI COME SONO, un ruolo particolare, soltanto perché si trovavano esattamente dove mi serviva che fossero.

Forse, in fondo, non era il destino. Forse c’erano molte cose insensate ed era soltanto questione di aprire gli occhi per coglierle.

Insensate e stupide. I due aggettivi preferiti di Charlie se si parlava di moto.