«Lo chiamo subito», suggerì Billy. «È sempre il benvenuto».
Cercai di nascondere il disagio con una risata. «Non passerà un’eternità prima che mi rifaccia viva. Prometto che tornerò... talmente spesso che vi stuferete di me». Dopotutto, se Jacob fosse riuscito a riparare la moto, avrei avuto anche bisogno di qualcuno che mi insegnasse a guidarla.
Billy rispose con una risatina. «Va bene, facciamo la prossima volta».
«Allora, Bella, che vuoi fare?», domandò Jacob.
«Decidi tu. Cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?». Mi sentivo stranamente a mio agio. Era un luogo familiare, in un certo senso. Non c’era nessun fastidioso contatto con il passato recente.
Jacob tentennò. «Stavo per andare a lavorare un po’ alla mia macchina, ma possiamo fare qualcos’altro...».
«No, è un’ottima idea! Mi piacerebbe vederla».
«Va bene», rispose poco convinto. «È nel garage sul retro».
Meglio ancora, mi dissi. Salutai Billy. «Ci vediamo dopo».
Un fitto muro di alberi e cespugli nascondeva il garage dalla casa. La rimessa era stata ricavata da due grossi casotti prefabbricati, adiacenti e privi di pareti divisorie. Protetta dalla struttura, e issata sopra quattro blocchi di cemento, vidi quella che mi sembrava un’automobile fatta e finita. Se non altro, riconobbi il simbolo sul radiatore.
«Che modello di Volkswagen è?», chiesi.
«Una vecchia Golf: del 1986, un classico».
«Come procede?».
«Quasi finita!», disse allegro. Poi si fece più serio. «Papà ha mantenuto la promessa, la scorsa primavera».
«Ah», risposi.
Probabilmente capì che preferivo non toccare l’argomento. Cercai di non ripensare al ballo di fine anno, il maggio precedente. Jacob aveva chiesto a suo padre soldi e pezzi di ricambio, come ricompensa per il messaggio da recapitarmi proprio al ballo. Billy voleva che mi mantenessi a distanza di sicurezza dalla persona più importante della mia vita. La sua preoccupazione, alla fine, si era dimostrata superflua. Ormai ero fin troppo al sicuro.
Ma intendevo fare il possibile affinché la situazione cambiasse.
«Jacob, sai qualcosa di motociclette?», chiesi.
Lui si strinse nelle spalle. «Qualcosina. Il mio amico Embry ha una moto da cross. Ogni tanto ci lavoriamo. Perché?».
«Be’...». Ci pensai su, arricciando le labbra. Non ero sicura che sapesse mantenere il segreto, ma del resto non avevo molte alternative. «Ho appena recuperato un paio di moto, che non sono esattamente in forma. Pensi di riuscire a rimetterle in sesto?».
«Fico». Sembrava davvero lusingato dalla sfida. Il suo viso si illuminò. «Ci provo».
Alzai un dito in segno di avvertimento. «Il fatto è», spiegai, «che Charlie non vuole sentir parlare di moto. Sinceramente, se sapesse di questa faccenda gli verrebbe una sincope. Perciò... vietato parlarne con Billy».
«Certo, certo», disse Jacob sorridendo. «Capisco».
«Ti pago», continuai.
Si sentì offeso. «No. Voglio aiutarti, non puoi pagarmi».
«Be’... allora che ne dici di uno scambio?». Stavo improvvisando, ma ne venne fuori una proposta ragionevole. «A me serve una moto sola—e ho anche bisogno di lezioni di guida. Quindi, che ne dici se una moto rimane a te, e tu mi insegni?».
«Bel-lo». Scandì le due sillabe.
«Un attimo... hai l’età? Quando compi gli anni?».
«L’hai dimenticato», disse, con una scherzosa occhiataccia di rimprovero. «Ho già sedici anni».
«Non che l’età ti abbia mai fermato», mormorai. «Scusa per il tuo compleanno».
«Non preoccuparti. Anch’io ho dimenticato il tuo. Quanti ne hai, quaranta?».
Arricciai il naso. «Quasi».
«Dobbiamo festeggiarli tutti e due assieme, per rimediare».
«Mi stai invitando a uscire?».
A quelle parole, i suoi occhi si accesero.
Dovevo tenere a bada l’entusiasmo per non dargli l’impressione sbagliata, però era passata una vita dall’ultima volta in cui mi ero sentita così leggera e di buonumore. Era difficile gestire una sensazione tanto insolita.
«Quando le moto saranno finite, magari. Saranno il nostro regalo», aggiunsi.
«Affare fatto. Quando le porti?».
Balbettai qualcosa, imbarazzata. «A dire la verità, sono già sul pick-up».
«Grande!». Sembrava davvero entusiasta.
«Se le scarichiamo, Billy ci vedrà?».
Fece l’occhiolino. «Basta stare attenti».
Girammo attorno al lato destro della casa, riparandoci tra gli alberi e fingendo di passeggiare disinvolti per evitare sorprese. Jacob scaricò alla svelta le moto dal cassone del pick-up, trascinandole una dopo l’altra tra i cespugli in cui mi ero nascosta. Sembrava fin troppo facile per lui. A me le moto erano sembrate molto, molto più pesanti.
«Non sono niente male», sentenziò Jacob, mentre le mettevamo al sicuro tra gli alberi. «Questa, una volta sistemata, potrebbe anche valere qualcosa: è una vecchia Harley Sprint».
«Allora è tua».
«Sei sicura?».
«Assolutamente».
«Però ci vorranno un po’ di soldi», disse, osservando cupo il metallo annerito. «Prima di tutto dobbiamo procurarci dei ricambi».
«Dobbiamo un bel niente. Se vuoi lavorare gratis, i pezzi li pagherò io».
«Non so...», borbottò.
«Ho qualche soldo da parte. Per il college, hai presente». Il college, il college, ripetei tra me e me. Non avevo abbastanza denaro per andare chissà dove e, oltretutto, non ero nemmeno così impaziente di lasciare Forks. Sarebbe cambiato qualcosa, se avessi sottratto qualcosina ai miei fondi?
Jacob si limitò ad annuire. Per lui era una decisione sensata.
Mentre tornavamo furtivi verso il garage improvvisato, meditai sulla mia fortuna. Solo un adolescente avrebbe potuto farmi da complice in un’avventura simile: mentire ai nostri genitori e riparare due veicoli pericolosi utilizzando i soldi che avrebbero dovuto finanziare i miei studi. Ma lui non ci vedeva niente di strano. Jacob era un dono del cielo.
6
Amici
Come nascondiglio per le moto, il casotto di Jacob era più che sufficiente. Sulla sedia a rotelle, Billy non era in grado di affrontare il terreno irregolare tra la rimessa e la casa.
Jacob iniziò immediatamente a smontare la prima moto, quella rossa, destinata a me. Aprì la portiera del passeggero della Golf per farmi accomodare sul sedile anziché per terra. Mentre lavorava, chiacchierava allegro e mi bastava annuire appena perché la conversazione proseguisse sciolta. Mi aggiornò sui suoi progressi scolastici, sulle lezioni del secondo anno e sui suoi due migliori amici.
«Quil ed Embry?», lo interruppi. «Che nomi strani».
Jacob sghignazzò. «Quil l’ha ereditato da qualche parente, ed Embry si chiama così in onore di una stella delle soap opera. Non so dirti altro. Se inizi a prenderli in giro giocano sporco: ti attaccano, due contro uno».
«Begli amici». Lo guardai con diffidenza.
«No, lo sono davvero. L’importante è che non tiri in ballo i loro nomi».
In quel momento sentimmo una voce in lontananza. «Jacob?», gridò qualcuno.
«È Billy?», chiesi.
«No». Jacob abbassò la testa, un velo di rossore sulle guance scure. «Parli del diavolo...», mormorò.
«Jake? Sei là fuori?». Il grido si avvicinava.
«Sì!», urlò Jacob e sospirò.
Aspettammo per poco in silenzio, finché due ragazzi longilinei, dalla pelle scura, girarono l’angolo ed entrarono nella rimessa.
Uno era slanciato, alto quasi come Jacob. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, con la riga in mezzo, da una parte tirati dietro l’orecchio, dall’altra sciolti. L’altro era più basso e tarchiato. La maglietta bianca attillata conteneva a malapena i suoi pettorali ben sviluppati, di cui sembrava consapevole e contento. Aveva i capelli cortissimi, quasi rasati.
Alla mia vista, i due esitarono. Il magro lanciava occhiate a Jacob e a me, il muscoloso non mi staccava gli occhi di dosso e a poco a poco si sciolse in un sorriso.