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«Ciao, Jacob».

«Bella idea, invitare Billy da voi». Mi offrì la mano per farsi dare un cinque.

Per colpirla fui costretta ad allungarmi in punta di piedi, così tanto che Jacob scoppiò a ridere.

Harry passò a prendere Billy pochi minuti dopo. Mentre aspettavamo di rimanere soli, Jacob mi mostrò la sua cameretta.

«Allora, dove andiamo, signor meccanico?», domandai non appena Billy chiuse la porta.

Jacob estrasse un foglietto ripiegato dalla tasca e lo lisciò. «Prima di tutto alla discarica, vediamo se siamo fortunati. La faccenda potrebbe rivelarsi un po’ costosa», mi avvertì. «Prima che tornino a funzionare, quelle due moto hanno bisogno di parecchia assistenza». Non gli sembrai troppo preoccupata, perciò proseguì: «Se vuoi una cifra, siamo attorno ai mille dollari».

Sfoderai il libretto degli assegni, mi feci aria con quello e alzai gli occhi al cielo, beffandomi delle sue preoccupazioni. «Siamo coperti».

Fu una giornata davvero strana. Mi divertii. Persino alla discarica, sotto la pioggia battente e nel fango fino alle caviglie. Chissà, forse era soltanto un’altra fase della ripresa dall’annebbiamento, ma come spiegazione non mi sembrava sufficiente.

Avevo il sospetto che fosse merito di Jacob. Non perché era sempre felice di vedermi, o perché non mi trattava con la condiscendenza riservata ai pazzi o ai depressi. Io non c’entravo.

Jacob era fatto così, e basta. Sempre allegro, condivideva con chiunque gli fosse accanto la felicità che lo seguiva come un’aura. Come il Sole con la Terra, scaldava chiunque entrasse nel suo campo gravitazionale. Era una qualità naturale e spontanea. C’era poco da meravigliarsi che fossi tanto impaziente di vederlo.

Non andai nel panico nemmeno quando fece un commento sul buco che spiccava nel mio cruscotto.

«Sì è rotta l’autoradio?», domandò.

«Sì», mentii.

Frugò nell’apertura. «Chi l’ha tolta? È un bel danno...».

«Sono stata io».

Rise. «Meglio che non tocchi le moto, allora!».

«Sta’ tranquillo».

Secondo Jacob, la spedizione alla discarica aveva dato buoni frutti. Era entusiasta di aver rimediato quelli che per me erano solo pezzi di metallo deformati e anneriti dall’olio; mi sembrava già una gran cosa che riuscisse a capire cosa fossero.

Poi ci trasferimmo a Hoquiam, all’officina di Checker. Con il pick-up, sull’autostrada che scendeva a sud tra mille curve, impiegammo più di due ore, ma con Jacob il tempo passava piacevolmente. Chiacchierammo dei suoi amici e della scuola, e mi ritrovai a fargli domande senza neanche fingere, ma sinceramente curiosa di ascoltare i suoi racconti.

«Sto parlando solo io», si lamentò, dopo un lungo aneddoto sui guai in cui si era cacciato Quil dopo che aveva chiesto di uscire alla ragazza di uno dell’ultimo anno. «Perché non racconti qualcosa tu? Che succede a Forks? Scommetto che c’è molta più vita che a La Push».

«Ti sbagli», sospirai. «Non succede niente. I tuoi amici sono molto più interessanti dei miei. Mi piacciono. Quil è divertente».

Aggrottò le sopracciglia. «Secondo me anche tu piaci a lui».

Scoppiai a ridere. «È troppo giovane per me».

Jacob si fece ancora più scuro in viso. «Non così tanto. Appena un anno e pochi mesi».

Avevo il sospetto che non stessimo più parlando di Quil. A bassa voce, lo stuzzicai. «Certo, ma considerata la differenza di maturità tra ragazzi e ragazze non credi che l’età vada considerata come quella dei cani? Io, per esempio, è come se avessi circa dodici anni di più, no?».

Rise e alzò gli occhi al cielo. «Okay, ma se proprio vuoi fare la difficile, allora devi anche considerare le nostre dimensioni. Tu sei così piccola che dal conteggio totale dovrei togliere dieci anni».

«Un metro e sessanta è perfettamente nella media». Arricciai il naso. «Non è colpa mia se tu sei un fenomeno da baraccone».

Scherzammo in quella maniera fino a Hoquiam, alla ricerca della formula più precisa per calcolare l’età—persi altri due anni perché non sapevo cambiare le gomme, ma ne ripresi uno perché a casa ero io a occuparmi della contabilità—finché, giunti da Checker, arrivò il momento di concentrarci sul lavoro. Jacob trovò tutto ciò che aveva messo in lista e si disse fiducioso che con quel bottino potessimo fare parecchi progressi.

Tornati a La Push, io avevo ventitré anni e lui trenta... grazie a un conteggio sfacciatamente rigirato a suo favore.

Non avevo dimenticato la ragione di tanti sforzi. E, malgrado mi stessi divertendo più di quanto avessi mai potuto pensare, le mie intenzioni originali non erano state affatto accantonate. Volevo essere un’altra persona. Era un gesto insensato, ma non m’importava. Volevo comportarmi nella maniera più spericolata possibile a Forks. Non intendevo restare l’unica a rispettare una promessa già violata. Passare il tempo con Jacob era un extra, e molto più piacevole di quanto potessi chiedere.

Billy non era ancora rientrato, perciò riuscimmo a trasportare il nostro bottino senza dover sgattaiolare tra gli alberi. Finito di disporlo sul pavimento di plastica, accanto alla scatola degli attrezzi, Jacob si mise subito al lavoro, senza smettere di parlare e ridere, mentre le sue dita vagliavano sicure quegli strani pezzi di metallo che gli stavano davanti.

Era stupefacente quanto fosse bravo con le mani. Sembravano troppo grosse, eppure compivano operazioni delicate con facilità e precisione. Mentre lavorava, sembrava persino aggraziato. Ma quando era in piedi... in quella posizione, l’altezza e i piedoni lo rendevano pericoloso quasi quanto me.

Quil ed Embry non si fecero vivi, probabilmente avevano preso sul serio l’avvertimento del giorno precedente.

La giornata trascorse fin troppo in fretta. Fuori dal garage il buio scese prima che me ne accorgessi e a un certo punto sentimmo il richiamo di Billy.

Scattai in piedi per aiutare Jacob a nascondere tutto, incerta perché non sapevo dove mettere le mani.

«Lascia stare», disse lui. «Continuerò a lavorarci più tardi».

«Però non dimenticare i compiti e tutto il resto», dissi, con un vago senso di colpa. Non volevo metterlo nei guai. Quel piano riguardava soltanto me.

«Bella?».

Entrambi drizzammo le orecchie al suono familiare della voce di Charlie smorzata dagli alberi. Si stava avvicinando.

«Oh cavolo!», mormorai. «Arrivo!», gridai in direzione della casa.

«Andiamo». Jacob sorrise, felice di quell’atmosfera da cospirazione. Spense la luce e per qualche istante restai cieca. Jacob mi prese per mano e mi trascinò fuori dal garage, in mezzo agli alberi, guidandomi senza incertezze per il sentiero. La sua mano era ruvida e molto calda.

Malgrado il sentiero, incespicavamo a ogni passo. Perciò, quando la casa apparve, ridevamo entrambi. Non erano risate profonde, ma lievi e superficiali, eppure piacevoli. Ero certa che non avrebbe notato la mia leggera isteria. Non ero abituata a ridere, mi sembrava giusto e allo stesso tempo totalmente sbagliato.

Charlie ci aspettava sotto il piccolo portico sul retro e Billy era seduto dietro di lui, sulla soglia.

«Ciao, papà», esclamammo entrambi nello stesso momento, e questo diede il via ad altre risate.

Charlie ci fulminò con un’occhiata puntata sulla mia mano, ancora stretta in quella di Jacob.

«Billy ci ha invitati a cena», disse Charlie, in modo distratto.

«Stasera spaghetti, con la ricetta supersegreta che custodisco da generazioni», disse Billy, solenne.

Jacob ridacchiò. «Non mi pare che il ragù sia una scoperta così antica».

Quanta gente, in casa. C’erano Harry Clearwater e la sua famiglia: la moglie Sue, di cui avevo ricordi vaghi che risalivano alle mie estati a Forks da bambina, e i due figli. Leah frequentava la mia stessa classe ma aveva un anno più di me. Era una bellezza esotica—pelle perfettamente bronzea, occhi neri luccicanti, ciglia lunghe e fitte—e imbronciata. Quando entrammo era al telefono e non si staccò un attimo dalla cornetta. Seth aveva quattordici anni; pendeva dalle labbra di Jacob, il suo idolo.