Il tavolo della cucina era troppo piccolo per contenerci tutti, perciò Charlie e Harry portarono le sedie in giardino e mangiammo gli spaghetti, tenendo i piatti in grembo, alla luce tenue che usciva dall’interno della casa. Gli uomini parlavano della partita, Harry e Charlie programmarono una battuta di pesca. Sue provocò il marito rinfacciandogli i suoi problemi di colesterolo e tentando, inutilmente, di indurlo a mangiare verdure e insalate. Jacob parlò soprattutto con me e Seth, che si inseriva energico nel discorso ogni volta che si sentiva messo in disparte. Charlie mi osservava, cercando di non farsi notare, con sguardo appagato ma circospetto.
C’era molto rumore, quasi confusione, i discorsi si sovrapponevano e le risate che nascevano da una parte coprivano le battute dell’altra. Non fui costretta a parlare granché, ma sorrisi molto, sempre genuinamente.
Non avevo voglia di andarmene.
Era pur sempre lo Stato di Washington, però, e a interrompere la festa giunse l’inevitabile acquazzone, e il salotto di Billy era troppo piccolo perché ci trasferissimo tutti al coperto. Charlie si era fatto accompagnare da Harry, perciò mi toccò dargli un passaggio a casa. Mi chiese com’era andata la giornata e gli raccontai quasi tutta la verità: avevo accompagnato Jacob a prendere dei pezzi di ricambio e l’avevo guardato lavorare, in garage.
«Tornerai a trovarlo presto?», chiese, con falsa disinvoltura.
«Domani, dopo la scuola. Mi porto i compiti da fare, non preoccuparti».
«Ci mancherebbe!», esclamò, cercando di nascondere la soddisfazione.
Giunta a casa, sentii tornare il nervosismo. Non volevo salire le scale. Il calore della presenza di Jacob stava svanendo, rimpiazzato da un senso di ansia sempre più forte. Ne ero sicura, non avrei potuto concedermi due notti tranquille di fila.
Per tirare tardi, controllai la posta elettronica. C’era un nuovo messaggio di Renée.
Mi parlava delle sue giornate, di un nuovo club di lettura a cui si era iscritta per riempire il vuoto lasciato dalle lezioni di meditazione abbandonate di recente, di una settimana di supplenza in seconda elementare, di quanto le mancassero i bambini del suo vecchio asilo. Mi scriveva che Phil era contento del suo nuovo incarico di allenatore e che stavano progettando un secondo viaggio di nozze a Disney World.
Mi accorsi che il suo messaggio, più che a una lettera, somigliava a una pagina di diario. Mi sentii invadere dal rimorso: che razza di figlia che ero!
Le risposi subito, commentando ogni parte della sua mail e aggiungendo notizie su di me—la spaghettata da Billy, le mie sensazioni mentre osservavo Jacob trasformare pezzetti di metallo in congegni funzionanti -, timorosa e con un filo di invidia. Evitai qualsiasi accenno alla differenza che avrebbe senz’altro notato tra quella e le mie mail dei mesi precedenti. Ricordavo a malapena cosa le avessi scritto una settimana prima, ma ero sicura di non essere stata particolarmente espansiva. Più ci pensavo, più mi sentivo in colpa: dovevo averla fatta preoccupare tanto.
Finii per fare tardissimo, eseguendo molti più compiti a casa di quanto fosse necessario. Ma né l’insonnia né il tempo passato con Jacob—che mi aveva dato una parvenza di felicità, per fragile che fosse—riuscirono a tenere lontano il sogno per la seconda notte consecutiva.
Mi svegliai tremante, le urla attutite dal cuscino.
Alla luce fioca del mattino, filtrata dalla nebbia fuori la finestra, restai immobile a letto e cercai di scrollarmi il sogno di dosso. Mi concentrai su quello che avevo colto: rispetto al solito, c’era una piccola differenza.
Non ero più sola, nel bosco. C’era anche Sam Uley: il ragazzo che mi aveva ripescata dalla foresta, in quella notte a cui non riuscivo a pensare razionalmente. Era un cambiamento strano e inaspettato. Gli occhi scuri di Sam erano curiosamente ostili, come se custodissero un segreto inconfessabile. Li fissavo, ogni volta che la mia ricerca frenetica me lo permetteva; oltre al solito senso di panico, percepivo il disagio di sentirli vicini. Forse perché, quando non lo guardavo direttamente, la sua sagoma sembrava tremare e cambiare, ai margini del campo visivo. Ma non faceva altro che fissarmi, immobile. A differenza di quanto era successo realmente, non mi offriva il suo aiuto.
A colazione, Charlie non mi perse di vista un attimo, mentre io facevo finta di niente. Era giusto così. Non potevo aspettarmi che non si preoccupasse. Ci sarebbero volute settimane prima che svanisse la paura di vedermi di nuovo trasformata in uno zombie e nel frattempo dovevo limitarmi a fare come se nulla fosse. In fondo, anch’io temevo il ritorno dello zombie. Due giorni di pausa non erano affatto sufficienti perché potessi dichiararmi guarita.
A scuola era il contrario. Ora che ci facevo caso, nessuno badava più a me.
Ripensai al mio primo giorno da alunna alla scuola superiore di Forks; a quanto avevo desiderato essere invisibile, confondermi al grigio del marciapiede di cemento come un enorme camaleonte. Sembrava che quel desiderio si fosse avverato con un anno di ritardo.
Era come se non ci fossi. Persino gli sguardi dei professori scivolavano sul mio banco come se questo fosse vuoto.
Quella mattina restai in ascolto delle voci che erano tornate a circondarmi. Cercai di aggiornarmi sulle vicende recenti, ma le conversazioni erano talmente slegate che mi toccò rinunciare.
Jessica non alzò neanche gli occhi, quando mi accomodai al suo fianco per la lezione di matematica.
«Ciao, Jess», dissi, ostentando disinvoltura. «Com’è andato poi il weekend?».
Mi guardò con sospetto. Era ancora arrabbiata? O non aveva la pazienza necessaria per parlare con una pazza?
«Alla grande», disse e tornò al suo libro.
«Bene», mormorai.
Altro che trattarmi con freddezza: mi aveva congelata. Nemmeno l’aria che soffiava dalle griglie del cruscotto riuscì a riscaldarmi. Presi il giubbotto dal poggiaschiena della sedia e lo indossai.
La quarta ora terminò in ritardo e quando entrai alla mensa il mio solito tavolo era già pieno. C’erano Mike, Jessica e Angela, Conner, Tyler, Eric e Lauren. Accanto a Eric c’era Katie Marshall, la ragazza del terzo anno con i capelli rossi che abitava dietro casa mia, e vicino a lei stava Austin Mark—il fratello maggiore di quello che mi aveva lasciato le moto. Chissà da quanto tempo occupavano quei posti: non riuscivo a ricordare se fosse dal primo giorno, o se avessero quell’abitudine da sempre.
Il mio comportamento mi faceva sentire a disagio. Era come se fossi rimasta chiusa in un pacco imbottito per tutto il primo semestre.
Nessuno alzò gli occhi quando mi accomodai accanto a Mike, nonostante il cigolio stridulo della sedia contro il linoleum.
Cercai di inserirmi nella conversazione.
Mike e Conner parlavano di sport, perciò li esclusi all’istante.
«Dov’è Ben?», chiese Lauren ad Angela. Drizzai le orecchie, incuriosita. Chissà se Angela e Ben stavano ancora insieme.
Riconobbi Lauren a malapena. Aveva accorciato la sua chioma, color grano: adesso aveva un taglio da maschietto, tanto corto da scoprirle la nuca. Strano da parte sua. Mi chiesi il perché di quella scelta. Si era ritrovata una gomma da masticare tra i capelli? Li aveva venduti? I bersagli dei suoi soliti commenti acidi l’avevano aspettata all’uscita della palestra e rapata a zero? Pensai che non era il caso di giudicarla in base all’idea che di lei mi ero fatta in passato. Per quel che ne sapevo, poteva anche essersi trasformata in una brava ragazza.
«Ben ha un po’ di influenza», disse Angela, con il suo tono tranquillo e dimesso. «Questione di una giornata. Ieri sera, però, stava davvero male».
Anche Angela aveva cambiato pettinatura. Si era lasciata crescere i capelli.
«E voi cos’avete fatto nel weekend?», chiese Jessica, ma non sembrava che le importasse granché della risposta. Probabilmente era soltanto un modo di iniziare la conversazione e parlare dei fatti suoi. Se la sentiva di raccontare di Port Angeles in mia presenza? Ero talmente invisibile che nessuno si faceva problemi a parlare di me sotto il mio naso?