La casa era ancora là, ma non sembrava la stessa. La facciata era rimasta identica, ma da dietro le finestre spoglie incombeva il vuoto. Metteva paura. Per la prima volta, quella casa bellissima aveva l’aria di una vera dimora di vampiri.
Fermai il pick-up e guardai altrove. Avevo paura di proseguire. Non accadde nulla. Niente voci nella mia testa.
Lasciai il motore acceso e mi tuffai nel mare di felci. Forse, come il venerdì precedente, se avessi proseguito a piedi...
Mi avvicinai lentamente alla facciata nuda e vuota, confortata dal rombo del pick-up. Mi fermai davanti ai gradini del portico, non sentivo niente. Niente che rievocasse la loro presenza... la sua presenza. La casa era lì, grande e solida, ma significava poco, per me. La sua presenza concreta non riusciva a neutralizzare il senso di vuoto dei miei incubi.
Non osai avvicinarmi. Non volevo sbirciare dalle finestre. Qualunque visione sarebbe stata insopportabile. Se ci avessi scoperto stanze deserte in cui echeggiava l’abbandono, mi sarei sentita male. Come al funerale di mia nonna, quando mia madre aveva insistito perché non partecipassi alla veglia. Aveva detto che non c’era bisogno che vedessi la nonna così, che era meglio mi ricordassi di lei da viva anziché da morta.
Ma non sarebbe stato peggio se non avessi osservato alcun cambiamento? Se avessi rivisto i divani esattamente dove li ricordavo, i quadri alle pareti e, peggio ancora, il pianoforte sul rialzo? Soltanto la sparizione della casa, tutta intera, mi avrebbe fatta sentire peggio della constatazione che non c’era nessun legame materiale capace di trattenerli. Che avevano saputo lasciarsi tutto alle spalle, intatto e dimenticato.
Come me.
Cercai di non badare al vuoto e alla vertigine e tornai al pick-up. Quasi di corsa. Non vedevo l’ora di andarmene, di tornare nel mondo degli umani. Mi sentivo orrendamente vuota, volevo rivedere Jacob. Forse stavo sviluppando una nuova malattia, un’altra dipendenza. Come quella dall’annebbiamento. Ma non importava. Alla velocità massima consentita dal pick-up, sfrecciai verso la mia dose giornaliera.
Jacob mi stava aspettando. Mi rilassai non appena lo vidi e respirare fu più facile.
«Ciao, Bella», disse.
Sorrisi, rincuorata. «Ciao, Jacob». Salutai con la mano Billy che guardava dalla finestra.
«Al lavoro», disse Jacob impaziente e a bassa voce.
Chissà come, riuscii a ridere: «Davvero non ti sei ancora stufato di me?». Forse iniziava a chiedersi il perché del mio disperato desiderio di compagnia.
Jacob fece strada, dietro casa, verso il garage.
«Nah... non ancora».
«Per favore, se inizio a darti sui nervi dimmelo. Non voglio essere un peso».
«D’accordo», disse con la sua risata rauca. «Fossi in te, però, non mi farei prendere dal panico».
Quando entrai nel garage, restai sbalordita alla visione della due ruote rossa, ora molto più simile a una motocicletta che a un ferrovecchio smembrato.
«Jake, sei incredibile», sussurrai.
Lui rise di nuovo. «Quando mi butto in un progetto, diventa un’ossessione». Si strinse nelle spalle. «Se avessi un po’ di cervello in più non andrei tanto di fretta».
«Perché?».
Abbassò lo sguardo e fece una pausa tanto lunga da farmi temere che non avesse sentito la domanda. Infine chiese: «Bella, se ti dicessi che non sono capace di riparare le moto, come reagiresti?».
Neanche io risposi subito e lui alzò lo sguardo per scrutare la mia espressione.
«Ti direi... che è un peccato, ma che potremmo cercare qualcos’altro di interessante da fare. Se fossimo con l’acqua alla gola potremmo persino metterci a fare i compiti».
Jacob sorrise, le spalle si rilassarono. Si sedette accanto alla moto e raccolse una chiave inglese. «Quindi, può darsi che verrai a trovarmi anche quando avremo finito?».
«È questo che intendevi?». Scossi la testa. «Ora come ora, sto sfruttando a un prezzo vantaggioso le tue capacità di meccanico. Ma se tu mi dai il permesso, certo che verrò ancora».
«Vuoi rivedere Quil?», disse scherzando.
«Mi hai smascherata».
Ridacchiò. «Davvero ti piace passare il tempo con me?», chiese meravigliato.
«Sì, molto. E te ne darò una prova. Domani lavoro, ma mercoledì, niente motori».
«Cioè?».
«Non so... possiamo stare a casa mia, così non ci sarà niente a ossessionarti. Potresti portarti i compiti: temo che tu sia rimasto un po’ indietro, come me».
«I compiti non sono una cattiva idea». Fece una smorfia, chissà quanti ne aveva trascurati per stare con me.
«D’accordo. Di tanto in tanto ci dobbiamo comportare da persone responsabili, oppure Charlie e Billy non vedranno più di buon occhio la cosa». Feci un gesto, indicando entrambi come fossimo un’entità sola, e lui si illuminò di entusiasmo.
«Compiti una volta alla settimana?», propose.
«Forse è meglio se facciamo due volte», suggerii, ripensando alla montagna di lavoro che mi era stata assegnata quella mattina.
Dopo un sospiro profondo, si allungò verso la cassetta degli attrezzi e ne estrasse la busta di carta di un fruttivendolo. Sfoderò due bibite in lattina, ne aprì una e me la offrì. Aprì la seconda e la alzò al cielo, con un gesto solenne.
«Brindiamo al senso di responsabilità», disse. «Due giorni alla settimana».
«E all’incoscienza, negli altri cinque», aggiunsi.
Sorrise e toccò la mia lattina con la sua.
Tornai a casa più tardi di quanto pensassi e scoprii che Charlie, anziché aspettarmi, aveva ordinato una pizza. E non gli interessavano le mie scuse.
«Non preoccuparti», chiarì. «Cucini sempre tu, avrai pur bisogno di una pausa».
Ovviamente si sentiva rincuorato nel vedermi vivere come una persona normale e non aveva la minima intenzione di mettermi i bastoni tra le ruote.
Prima di fare i compiti controllai la posta elettronica, e trovai una lunga e-mail di Renée. Era entusiasta delle mie notizie tanto dettagliate, perciò le mandai un’altra descrizione esauriente delle mie ultime giornate. Le parlai di tutto, escluse le moto. L’argomento rischiava di mettere in agitazione persino la spensierata Renée.
A scuola fu un martedì di alti e bassi. Angela e Mike sembravano pronti ad accogliermi a braccia aperte, sorvolando di cuore sui miei mesi di comportamento assurdo. Jess opponeva resistenza. Chissà, forse aveva bisogno di un documento formale di scuse per l’episodio di Port Angeles.
Al lavoro, Mike era allegro e loquace. Come se le chiacchiere tenute in serbo per sei mesi fossero traboccate tutte in quel momento. Scoprii di riuscire a ridere e scherzare anche con lui, benché non mi ci trovassi a mio agio come con Jacob. Fino all’orario di chiusura, però, il tutto mi parve innocuo.
Mike applicò il cartello «CHIUSO» alla porta, mentre ripiegavo la divisa e la sistemavo sotto il bancone.
«È stato divertente, stasera», disse Mike allegro.
«Si», risposi, anche se in cuor mio avrei preferito passare il pomeriggio al garage.
«Mi dispiace che tu sia fuggita dal cinema, venerdì scorso».
Mi sentii un po’ spiazzata dal discorso. Feci spallucce. «Probabilmente è perché sono una pappamolla».
«Voglio dire, secondo me dovresti andare a vedere un film più bello, qualcosa di divertente», chiarì lui.
«Ah», mormorai ancora confusa.
«Questo venerdì, per esempio. Con me. Potremmo andare a vedere qualcosa che non ti metta paura».
Non sapevo come rispondere.
Non volevo rovinare l’amicizia con Mike, a maggior ragione dopo che si era dimostrato una delle poche persone pronte a perdonare la mia pazzia. Ma anche quella situazione mi sembrava troppo familiare. Come se nell’ultimo anno non fosse accaduto nulla. Mi sarebbe piaciuto avere di nuovo la scusa di Jessica.
«Mi stai chiedendo di uscire con te?», chiesi. A quel punto, l’onestà era probabilmente la tattica migliore. Prendere il toro per le corna.
Valutò il mio tono di voce. «In un certo senso. Ma non è per forza così».
«Io non esco con nessuno», dissi piano, rendendomi conto di quanto ciò fosse vero. Era un mondo lontano, irraggiungibile.