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«Nemmeno con un amico?», propose. Un po’ di entusiasmo era svanito dai suoi occhi azzurri. Speravo intendesse davvero che potevamo essere amici.

«Quella sarebbe una buona idea. Ma, a dire la verità, venerdì sono già impegnata, perciò, che ne dici della settimana prossima?».

«Che fai di bello?», chiese, con meno indifferenza di quanta volesse probabilmente mostrarne.

«Compiti. Ho fissato una... giornata di ripasso assieme a degli amici».

«Ah. Allora, vada per la prossima settimana».

Mi accompagnò al pick-up, con meno baldanza di prima. Rividi con chiarezza i miei primi mesi a Forks. Il cerchio si era chiuso e tutto mi sembrava un’eco; un’eco sorda, priva dell’attrattiva di un tempo.

Poco dopo, Charlie non restò affatto sorpreso di vedere me e Jacob spaparanzati sul pavimento del salotto, in mezzo ai libri, e la cosa mi fece pensare che lui e Billy la sapessero lunga.

«Ciao, ragazzi», disse voltandosi verso la cucina. Il profumo delle lasagne che avevo cucinato durante il pomeriggio—sotto gli occhi di Jacob che di tanto in tanto le assaggiava—riempiva il corridoio; ero stata brava, per farmi perdonare la pizza.

Jacob restò a cena e portò a casa un po’ di lasagne per Billy. Di malavoglia, fu costretto ad aggiungere un anno alla mia età, dato che ero una cuoca così brava.

Venerdì era giorno di garage e il sabato, dopo il turno dai Newton, di nuovo compiti. Charlie si sentiva abbastanza sicuro della mia sanità mentale da passare la giornata a pesca con Harry. Quando rientrò, avevamo già finito—la cosa ci fece sentire molto responsabili e maturi—e stavamo guardando Monster Garage su Discovery Channel.

«Forse è meglio che vada», sospirò Jacob. «Pensavo fosse più presto».

«Non c’è problema», mormorai. «Ti accompagno».

Rise della mia espressione svogliata, ne sembrava soddisfatto.

«Domani ci rimettiamo al lavoro», dissi non appena fummo al sicuro, sul pick-up. «A che ora preferisci che venga?».

Nel sorriso con cui rispose c’era uno strano entusiasmo. «Ti chiamo io, okay?».

«Va bene», risposi perplessa. Il sorriso si allargò.

Il mattino dopo feci le pulizie di casa; aspettavo che Jacob chiamasse e cercavo di scrollarmi di dosso l’ultimo incubo. Lo scenario era cambiato. La notte precedente avevo vagato in un ampio mare di felci, punteggiato di grandi tronchi di abete. Non c’era nient’altro e mi sentivo persa, alla deriva, sola e senza meta. Avrei voluto prendermi a schiaffi per la stupida gita di pochi giorni prima. Cercai di rimuovere il sogno dalla memoria, sperando di poterlo rinchiudere in una prigione inespugnabile.

Charlie era fuori a lavare l’auto della polizia, perciò, quando suonò il telefono, lasciai cadere lo scopettone e corsi al piano di sotto a rispondere.

«Pronto?», dissi, senza fiato.

«Bella». Il tono di voce di Jacob era strano e formale.

«Ciao, Jake».

«Penso proprio che... abbiamo un appuntamento».

Mi bastò un secondo per capire. «Sono pronte? Non posso crederci!». Che tempismo perfetto. Avevo bisogno di qualcosa che mi distraesse dagli incubi e dal senso di vuoto.

«Sì, funzionano, da cima a fondo».

«Jacob, tu sei senza dubbio, assolutamente, la persona più talentuosa e splendida che conosca. Questo ti fa guadagnare dieci anni».

«Fico! Ho raggiunto la mezza età».

Scoppiai a ridere. «Arrivo subito!».

Gettai gli attrezzi per le pulizie sotto il mobile del bagno e afferrai il giubbotto.

«Vai a trovare Jake», disse Charlie, quando gli sfrecciai davanti. Non era una domanda.

«Esatto», risposi, saltando sul pick-up.

«Se mi cerchi, più tardi sono alla centrale».

«D’accordo», risposi e girai la chiave.

Charlie disse qualcos’altro, ma non riuscii a sentirlo a causa del rombo del motore. Una frase simile a «Sempre di fretta, eh?».

Parcheggiai di fianco alla casa dei Black, vicino agli alberi, così che fosse più facile sgattaiolare fuori con le moto. Quando scesi dal pick-up, fui sorpresa da una macchia di colore: due motociclette tirate a lucido, una nera e una rossa, erano nascoste dietro un cespuglio, invisibili dalle finestre di casa. Jacob era pronto.

Sul manubrio di entrambe spiccava un nastrino blu annodato a mo’ di fiocco. Iniziai a ridere e Jacob uscì di casa, correndo.

«Pronta?», chiese sottovoce, con gli occhi sfavillanti.

Diedi un’occhiata alle sue spalle, non c’era traccia di Billy.

«Sì», risposi, ma non mi sentivo più tanto entusiasta: era difficile immaginarmi davvero a cavallo di una motocicletta.

Jacob caricò le moto sul cassone del pick-up con facilità, adagiandole con cura sul fianco per nasconderle.

«Andiamo», disse con voce più alta ed elettrizzata del solito. «Conosco un posto perfetto dove nessuno si accorgerà di noi».

Ci dirigemmo verso sud. La strada sterrata serpeggiava dentro e fuori dalla foresta. In certi tratti non si vedevano altro che alberi e poi, all’improvviso, ecco uno scorcio mozzafiato di oceano Pacifico, che si estendeva all’orizzonte, grigio scuro sotto le nuvole. Eravamo al di sopra della costa, in cima agli scogli che correvano lungo la spiaggia, e il panorama si perdeva a vista d’occhio.

Andavo piano, in modo da poter dare ogni tanto un’occhiata all’oceano quando la strada si avvicinava alla costa. Jacob mi stava spiegando come aveva finito di sistemare le moto, ma le sue descrizioni erano troppo tecniche e non riuscivo a seguirle.

In quel momento mi accorsi di quattro sagome su uno spuntone di roccia, un po’ troppo vicine allo strapiombo. Da lontano non capivo quanti anni potessero avere, ma diedi per scontato che fossero uomini. Malgrado l’aria gelata, indossavano soltanto bermuda.

Mentre li osservavo, il più alto si avvicinò all’orlo del precipizio. Rallentai automaticamente, incapace di affondare sull’acceleratore.

Poi si lanciò giù.

«NO!», urlai inchiodando.

«Che c’è?», gridò Jacob, allarmato.

«Quel tizio si è appena tuffato dallo scoglio! Perché non l’hanno fermato? Dobbiamo chiamare un’ambulanza!». Aprii la portiera e feci per scendere, ma era tutto inutile: il telefono più vicino era a casa di Billy. Però non potevo credere a ciò che avevo appena visto. Forse, inconsciamente, speravo che senza il filtro del parabrezza la scena sarebbe cambiata.

Jacob rise e lo trafissi con lo sguardo. Come faceva a essere così cinico e indifferente?

«Si stanno soltanto tuffando, Bella. Per divertimento. Sai com’è, a La Push non ci sono centri commerciali». Mi stava prendendo in giro, ma dalla sua voce trapelava un velo di irritazione.

«Si tuffano dagli scogli?», chiesi sbalordita. Vidi un’altra sagoma avvicinarsi allo strapiombo, fermarsi e lanciarsi con grazia nel vuoto. La caduta sembrò durare un’eternità e si concluse dolcemente nel grigio scuro delle onde, più in basso.

«Accidenti. È davvero alto». Tornai sul sedile, senza staccare gli occhi dai due che ancora non si erano tuffati. «Saranno almeno trenta metri».

«Be’, sì, di solito noi andiamo a tuffarci più in basso, su quella roccia che spunta più o meno a metà scogliera». La indicò. L’altezza sembrava più ragionevole. «Quelli sono davvero pazzi. Probabilmente vogliono mostrare quanto sono tosti. Voglio dire, oggi fa un freddo cane. In acqua non si sta affatto bene». Sembrava irritato, come se l’impresa dei quattro fosse un affronto personale. Un po’ mi sorprese. Pensavo fosse quasi impossibile fare innervosire Jacob.

«Anche tu ti tuffi dagli scogli?». Il “noi” non mi era sfuggito.

«Certo, certo». Fece spallucce e sorrise. «Ci divertiamo. Un po’ fa paura, un po’ è eccitante».

Diedi un’altra occhiata allo scoglio, verso la terza sagoma che ne misurava il margine. Non avevo mai assistito a un gesto così azzardato in vita mia. Il mio sguardo si accese e sorrisi. «Jake, una volta o l’altra dobbiamo provarci anche noi».