Sfrecciare lungo la strada in quel modo era stato meraviglioso. La sensazione del vento in faccia, la velocità, la libertà... avevano rievocato i momenti di una vita passata in cui sfrecciavo tra la vegetazione densa, senza seguire un sentiero, in groppa a lui che correva... A quel punto cessai di pensarci, e lasciai che i ricordi s’interrompessero, vinta dal dolore. Trasalii.
«Va tutto bene?», chiese Jacob.
«Sì». Cercai di sembrare convincente come poco prima.
«A proposito», aggiunse. «Stasera scollegherò il freno posteriore alla tua moto».
La prima cosa che feci, a casa, fu controllarmi allo specchio: che visione raccapricciante. Il sangue rappreso disegnava strisce spesse sulla guancia e sul mento, sporcandomi anche i capelli infangati. Mi esaminai accuratamente, fingendo che fosse vernice, per non farmi prendere dalla nausea. Finché respiravo con la bocca, nessun problema.
Mi lavai come potevo. Poi nascosi i vestiti sporchi e insanguinati in fondo alla cesta della biancheria, indossai un paio di jeans e una camicia con i bottoni (per evitare di infilarla e sfilarla dalla testa), usando la massima cautela. Riuscii a farcela, con una mano sola e senza sporcare gli indumenti nuovi.
«Sbrigati», disse Jacob.
«Okay, okay», risposi gridando. Dopo essermi assicurata che non ci fossero tracce compromettenti, scesi le scale.
«Come ti sembro?», chiesi.
«In effetti, meglio».
«È credibile che sia inciampata nel tuo garage e abbia sbattuto la testa contro un martello?».
«Sì, direi di sì...».
«Allora andiamo».
Jacob mi accompagnò in fretta alla porta e insistette per continuare a guidare. A metà del percorso verso l’ospedale, mi resi conto che era ancora a torso nudo.
Aggrottai le sopracciglia, imbarazzata. «Forse avremmo dovuto recuperare un giubbotto per te».
«Ci avrebbero smascherati», disse. «E poi, mica ho freddo».
«Scherzi?». Avevo i brividi, mi allungai ad accendere il riscaldamento.
Cercai di capire se stesse soltanto giocando a fare il duro per tranquillizzarmi, però Jacob sembrava davvero a proprio agio. Teneva il braccio appoggiato al mio schienale mentre mi rannicchiavo per combattere il freddo. Dimostrava davvero più di sedici anni—magari non quaranta, ma poteva essere più grande di me. Quanto a muscolatura, non aveva molto da invidiare a Quil, benché si lamentasse di essere uno scheletro. I muscoli lunghi e affusolati erano evidenti sotto la pelle liscia. La carnagione era di un colore così bello da stuzzicare la mia invidia.
Si accorse che lo stavo osservando.
«Che c’è?», chiese imbarazzato.
«Niente. Non me ne ero mai accorta. Sai che sei, come dire... bello?».
Un istante dopo essermi lasciata sfuggire quella frase, già temevo che potesse interpretarla nel modo sbagliato.
Ma lui alzò gli occhi al cielo. «Hai preso una bella botta in testa, eh?».
«Dico sul serio».
«Be’, allora... come dire, grazie».
Feci un sorriso. «Come dire, prego».
Per il taglio in fronte mi dettero sette punti di sutura. Dopo l’iniezione per l’anestesia locale, non sentii alcun dolore. Jacob mi teneva la mano mentre il dottor Snow ricuciva e io cercavo di non vedere l’ironia di quella scena.
Restammo in ospedale per un’eternità. Poi mi toccò riaccompagnare Jacob e correre a casa per preparare la cena a Charlie. La storia del martello nel garage di Jacob sembrò convincerlo. Dopotutto, non sarebbe stata la prima volta che finivo al pronto soccorso facendomi male da sola.
La notte non fu brutta come quella seguita alla prima volta che udii la voce perfetta a Port Angeles. La voragine si riaprì, come accadeva sempre in assenza di Jacob, ma i margini della ferita non pulsavano così forte. Già pensavo al futuro, alla ricerca di nuove illusioni, e riuscii a distrarmi. E poi, sapevo che il giorno dopo avrei rivisto Jacob e mi sarei sentita meglio. Così riuscii a sopportare il senso di vuoto e il familiare dolore; il sollievo era a portata di mano. Anche l’incubo perse un po’ della propria forza. Ero terrorizzata dalla sensazione del nulla, come sempre, ma anche stranamente ansiosa di urlare e risvegliarmi. Sapevo che l’incubo sarebbe finito.
Il giovedì successivo, prima che mi dimettessero di nuovo dal pronto soccorso, il dottor Gerandy chiamò mio padre per avvertirlo che potevo aver subito una commozione cerebrale e per suggerirgli di svegliarmi ogni due ore, di notte, e verificare che non fosse niente di serio. Charlie reagì con un’occhiata sospettosa al mio debole tentativo di giustificare la seconda ferita raccontandogli che ero inciampata ancora una volta.
«Forse è il caso che tu non metta piede in garage, Bella», suggerì quella sera a cena.
Andai nel panico, spaventata dalla possibilità che un editto di Charlie mi vietasse di andare a La Push e, di conseguenza, in moto. Non intendevo rinunciare: quel giorno avevo avuto la più straordinaria delle allucinazioni. L’illusione dalla voce vellutata aveva urlato per quasi cinque minuti, prima che frenassi di colpo e finissi contro l’albero. Quella notte ero pronta ad accettarne le conseguenze più dolorose senza lamentarmi.
«Non è successo in garage», replicai svelta. «Stavamo facendo trekking, sono inciampata in un sasso».
«Da quando ti dedichi al trekking?», chiese Charlie scettico.
«Lavorare dai Newton me ne ha fatto venir voglia: a furia di tessere ai clienti le lodi dei grandi spazi aperti, mi sono incuriosita».
Charlie mi squadrò incredulo.
«Starò più attenta», promisi, incrociando subito le dita sotto il tavolo.
«Non è un problema se restate a La Push, ma non allontanatevi dalla città, d’accordo?».
«Perché?».
«Be’, di recente abbiamo avuto qualche problema con gli animali. Se ne occuperà la Guardia Forestale, ma per il momento...».
«Ah sì, l’orso gigante», replicai al volo. «Lo hanno visto certi escursionisti che bazzicano il negozio. Pensi che là fuori ci sia davvero un enorme grizzly mutante?».
Corrugò la fronte. «Qualcosa c’è. Non allontanatevi dalla città, intesi?».
«Certo, certo», tagliai corto. Non sembrava del tutto soddisfatto.
«Charlie ha fiutato qualcosa», dissi a Jacob quando passai a prenderlo dopo le lezioni del venerdì.
«Forse dovremmo darci una calmata, con le moto». Notò la mia espressione contrariata e aggiunse: «Almeno per una settimana o giù di lì. Così, magari per sette giorni resterai lontana dall’ospedale, no?».
«E cosa facciamo?», brontolai.
Rispose con un sorriso allegro. «Quello che vuoi».
Ci pensai su per un minuto: cosa volevo?
Non sopportavo il pensiero di rinunciare a quei brevi momenti in cui ricordare non era doloroso, quelli che sorgevano da soli, senza che li rievocassi razionalmente. Se non potevo avere le moto, mi sarei messa a cercare per altre vie il pericolo e l’adrenalina, ma avevo bisogno di una buona dose di concentrazione e creatività. Restare inerte, nel frattempo, era una prospettiva triste. E se fossi di nuovo caduta in depressione, malgrado Jake? Dovevo tenermi occupata...
Forse c’era un’altra maniera, un’altra ricetta... un altro luogo.
Rivedere la casa era stato un errore, certo. Ma il marchio della sua presenza doveva essere rimasto impresso da qualche altra parte, oltre che nel mio subconscio. Doveva esistere un punto in cui mi potesse apparire più reale, rispetto ai luoghi affollati di altri ricordi umani.
Solo un luogo aveva quel requisito. Un luogo che sarebbe appartenuto sempre e soltanto a lui, e a nessun altro. Un posto magico, pieno di luce. La bella radura che avevo visto una volta sola in vita mia, illuminata dal sole e dalla sua pelle sfavillante.
L’idea poteva avere conseguenze negative: troppo rischio e troppo dolore. Sentivo una fitta e un vuoto dentro al solo pensiero! Era difficile non tradire emozioni. Ma di sicuro, là, come in nessun altro luogo, sarei riuscita a sentire la sua voce. E a Charlie avevo già detto di essermi data al trekking...