«Sono un vecchio amico di famiglia». Jacob si presentò e accettò la presa. Si salutarono stringendo con molto più vigore del necessario. Sfilata la mano, Mike si stiracchiò le dita.
Sentii suonare il telefono in cucina.
«Vado a rispondere, potrebbe essere Charlie», dissi e corsi dentro.
Era Ben. Angela si era presa l’influenza e lui non se la sentiva di venire da solo. Si scusò per il bidone. Tornai lentamente verso i ragazzi in attesa, scuotendo la testa. Speravo che Angela guarisse presto, ma egoisticamente ero anche irritata per com’erano andate le cose. Avremmo passato la serata in tre, io, Mike e Jacob... risultato perfetto, pensai, acida e sarcastica.
In mia assenza, l’amicizia tra Jake e Mike non aveva fatto alcun progresso. Mi aspettavano mantenendo le distanze e badando a non incrociare gli sguardi; l’espressione di Mike era burbera, quella di Jacob allegra come sempre.
«Angela sta male», dissi accigliata. «Lei e Ben non vengono».
«L’ennesima vittima dell’influenza. Anche Austin e Conner erano fuori combattimento, oggi. Forse dovremmo rimandare», suggerì Mike.
Prima che potessi rispondere di sì, Jacob parlò.
«A me va bene lo stesso. Se tu preferisci restare a casa, Mike...».
«No, vengo anch’io. Mi riferivo ad Angela e Ben. Andiamo». Si voltò in direzione del Suburban.
«Ehi, ti dispiace se prendiamo la macchina di Jacob?», chiesi. «Gli ho promesso un giro: ha appena finito di sistemarla. L’ha costruita da zero, con le sue mani». Mi vantavo di lui come una madre orgogliosa durante una riunione genitori-docenti.
«D’accordo», rispose secco Mike.
«Bene», rispose Jacob, come se il discorso fosse chiuso. Sembrava molto più a proprio agio di noi.
Mike salì sul sedile posteriore della Golf con una smorfia di disgusto.
Jacob era solare come sempre e chiacchierò fino a farmi dimenticare di Mike, che rimuginava in silenzio, dietro di noi.
Poi Mike cambiò strategia. Si sporse in avanti e appoggiò il mento sullo schienale del mio sedile. La sua guancia quasi toccava la mia. Mi voltai dando le spalle al finestrino.
«Non c’è l’autoradio, in questa cosa?», chiese Mike, leggermente petulante, interrompendo Jacob a metà di una frase.
«Sì», rispose, «ma a Bella non piace la musica».
Fissai Jacob, sorpresa. Non gli avevo mai detto una cosa del genere.
«Bella?», chiese Mike, infastidito.
«È vero», balbettai, senza staccare gli occhi dal profilo sereno di Jacob.
«Com’è possibile che non ti piaccia la musica?», domandò Mike.
Mi strinsi nelle spalle. «Non so. Mi irrita e basta».
«Vabbe’». Mike affondò nel sedile posteriore.
Giunti al cinema, Jacob mi allungò una banconota da dieci dollari.
«E questa?», domandai.
«Non sono abbastanza grande per entrare», disse.
Scoppiai a ridere. «E tanti saluti alle età relative. Billy mi ucciderà se ti faccio entrare di nascosto?».
«No. Gli ho già detto che sei intenzionata a corrompere la mia innocenza infantile».
Feci un risolino, mentre Mike accelerava per non perdere il nostro passo.
Quasi avrei preferito che Mike fosse tornato a casa. Era ancora imbronciato, tutt’altro che l’anima della festa. D’altronde non desideravo nemmeno uscire da sola con Jacob. Sarebbe stato un problema in più.
Il film era esattamente ciò che ci aspettavamo. Non erano ancora finiti i titoli di testa, che quattro persone erano saltate in aria, più una decapitata. La ragazza di fronte a me si coprì gli occhi con le mani e affondò il viso nel petto del suo compagno. Lui le dava buffetti sulle spalle e di tanto in tanto sobbalzava. Mike non sembrava interessato al film. Era rigido, con lo sguardo fisso verso il lembo di sipario che sovrastava lo schermo.
Per sopportare le due ore successive, mi feci coraggio guardando i colori e i movimenti sullo schermo, anziché concentrarmi sulle sagome delle persone, delle auto e delle case. A un certo punto, però, Jacob iniziò a ridacchiare.
«Che c’è?», sussurrai.
«E dai», sibilò. «Quel tizio zampillava sangue a sei metri di distanza. Più finto di così non si può».
Un’altra risatina, quando l’asta di una bandiera infilzò un uomo inchiodandolo a un muro di cemento.
Da quel momento iniziai a godermi lo spettacolo, ridendo sempre di più a mano a mano che l’apocalisse si faceva più ridicola. Com’era possibile tracciare confini più netti nel nostro rapporto, se assieme a lui mi divertivo così tanto?
Jacob e Mike si erano impossessati dei miei braccioli, uno a testa. Tenevano entrambi le mani inerti, con ilpalmo aperto all’insù, in posizione innaturale. Come tagliole, pronte a scattare. Jacob era abituato a prendermi per mano ogni volta che ne aveva la possibilità, ma lì, al buio del cinema, sotto gli occhi di Mike, il gesto avrebbe avuto ben altro significato, sicuramente lo sapeva anche lui. Non riuscivo a credere che Mike pensasse la stessa cosa, ma la sua mano era nella stessa posizione di quella di Jacob.
Incrociai strette le braccia, sperando che le loro mani si addormentassero.
Il primo a rinunciare fu Mike. Più o meno a metà film, ritrasse il palmo e si chinò in avanti reggendosi la testa tra le mani. Sulle prime, pensai che fosse una reazione alle scene del film, poi sentii un gemito.
«Mike, stai bene?», bisbigliai.
La coppia che ci stava davanti, al secondo gemito, si voltò verso di lui.
«No», disse, senza fiato. «Mi viene da vomitare».
Notai il velo di sudore sulla fronte, illuminato dallo schermo.
Fece un altro gemito e sfrecciò verso l’uscita. Mi alzai per seguirlo e Jacob fu subito alle mie spalle.
«No, resta lì», sussurrai. «Controllo io che stia bene».
Jacob mi seguì comunque.
«Non sei obbligato. Goditi i tuoi otto dollari di massacro», ribadii, mentre uscivamo dal corridoio.
«Stai tranquilla. Tu sì che sai scegliere. Questo film fa davvero schifo». Uscendo dal cinema, la sua voce passò da un sussurro al solito tono.
Nel foyer non c’era traccia di Mike e a quel punto fui lieta che Jacob mi fosse accanto: s’infilò nel bagno degli uomini a cercarlo.
Tornò dopo pochi secondi.
«Oh, è là dentro, tutto bene», disse alzando gli occhi al cielo. «Che pappamolle. Dovresti uscire con gente con lo stomaco più forte. Qualcuno che rida della violenza, anziché vomitare».
«Mi guarderò attorno».
Eravamo soli nel foyer. Entrambe le sale erano a metà proiezione e l’entrata era deserta e tanto silenziosa da riuscire a sentire i popcorn che scoppiettavano dietro il bancone.
Jacob si sedette sulla panchetta rivestita di vellutino che stava contro il muro e tamburellò sul posto vuoto accanto a sé.
«Mi è sembrato che ne avesse per un po’», disse stiracchiando le lunghe gambe, ben disposto ad aspettare.
Mi unii a lui sospirando. Sembrava deciso a cancellare altre linee di confine. Non appena fui seduta, mi si fece accanto e mi cinse le spalle.
«Jake», protestai sciogliendomi dalla presa. Lui lasciò cadere il braccio, senza fare una piega di fronte al mio rifiuto. Con una mano strinse forte la mia e quando tentai di ritrarla raddoppiò la presa e mi bloccò il polso. Da dove veniva quella confidenza?
«Aspetta un minuto, Bella, per favore», disse in tono pacato. «Dimmi una cosa».
Risposi con una smorfia. Non ne volevo sapere. Né in quel momento, né mai. In quel periodo della mia vita non c’era niente di più importante di Jacob Black. Ma lui sembrava deciso a rovinare tutto.
«Cosa?», mormorai acida.
«Ti piaccio, vero?».
«Sì, lo sai anche tu».
«Più di quel pagliaccio che sta vomitando l’anima là dietro?». Indicò la porta del bagno.
«Sì», sospirai.
«Più di tutti i ragazzi che conosci?». Era calmo, sereno... come se la mia risposta non contasse, o la conoscesse già.
«Anche più di tutte le ragazze», precisai.
«Ma non c’è altro», disse, e non era una domanda.
Era difficile rispondere, pronunciare la parola giusta. Rischiavo di ferirlo, di allontanarlo? Avrei sopportato anche questo?