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«Sì», sussurrai.

Mi sorrise. «Va bene così, sai. Mi basta sapere che ti piaccio più di tutti. E che pensi che io sia, come dire, bello. Sono pronto a perseguitarti per sempre».

«Non cambierò idea», risposi e, malgrado cercassi di mantenere un tono di voce normale, la tristezza si sentiva.

Lui si fece pensieroso, aveva smesso di provocare. «C’è ancora quell’altro, vero?».

Rabbrividii. Curioso: sapeva che era meglio non pronunciare quel nome, come poco prima con l’autoradio. Aveva colto tantissime cose di me, senza che fossi io a rivelarle.

«Non sei obbligata a parlarne», disse.

Annuii, rincuorata.

«Ma non prendertela con me se ti ronzo attorno, okay?». Picchiettò sul dorso della mia mano. «Perché non intendo rinunciare. Ho un sacco di tempo».

Sospirai. «Non dovresti sprecarlo con me», dissi, ma pensavo l’esatto contrario. Soprattutto se era disposto ad accettarmi com’ero: merce difettosa, prendere o lasciare.

«È ciò che voglio, ammesso che a te faccia piacere starmi accanto».

«Non riesco a immaginare come potrebbe non farmi piacere stare accanto a te», risposi, ed ero sincera.

Lui si illuminò. «È già abbastanza».

«Ma non aspettarti altro», lo avvertii, cercando di ritrarre la mano che si ostinava a stringere.

«Non ti dà fastidio, vero?», chiese, strizzandomi le dita.

«No», sospirai. A dirla tutta, era una sensazione piacevole. La sua mano era molto più calda della mia e in quel periodo avevo sempre troppo freddo.

«E non ti interessa cosa pensa lui». Con il pollice, indicò il bagno.

«Direi di no».

«E allora dove sta il problema?».

«Il problema», dissi, «è che io e te diamo allo stesso gesto due significati diversi».

«Be’», rispose stringendo ancora più forte. «È un problema mio, no?».

«Va bene», borbottai. «Ma non dimenticarlo».

«No. Adesso la bomba innescata è in mano mia, eh?». Mi pizzicò un fianco.

Alzai gli occhi al cielo. A quel punto gli potevo anche concedere di fare battute.

Sghignazzò a bassa voce, mentre con le dita rosa tracciava disegni distratti sul bordo della mia mano.

«Che strana cicatrice hai qui», disse all’improvviso, girandomi il polso per guardare. «Come te la sei fatta?».

Con l’indice seguì il contorno della lunga mezzaluna argentata visibile a malapena sulla mia pelle candida.

Cercai di liquidarlo in fretta. «Credi davvero che mi ricordi come mi sono fatta tutte le cicatrici che porto?».

Aspettai che il ricordo mi colpisse, che spalancasse la voragine. Ma, come spesso accadeva, la presenza di Jacob mi manteneva integra.

«È fredda», bisbigliò premendo con delicatezza nel punto in cui ero stata perforata dai denti di James.

In quel momento Mike barcollò fuori dal bagno, pallido e coperto di sudore. Aveva una gran brutta cera.

«Oh, Mike», esclamai.

«È un problema se torniamo in anticipo?», bisbigliò.

«No, certo che no». Liberai la mano dalla stretta e lo aiutai a camminare. Sembrava poco stabile.

«Il film era troppo per te?», chiese Jacob, spietato.

Mike lo incenerì con un’occhiata. «Non ne ho visto neanche un secondo», bofonchiò. «Mi è venuto da vomitare ancora prima che si spegnessero le luci».

«Perché non hai detto niente?», chiesi mentre zoppicavamo verso l’uscita.

«Speravo che passasse».

«Aspetta un secondo», disse Jacob, sulla porta. Tornò svelto al chiosco interno.

«Potrei avere un secchiello di popcorn vuoto?», chiese alla commessa. Lei guardò Mike e porse immediatamente il contenitore a Jacob.

«Fatelo uscire, per favore», implorò. Evidentemente, pulire il pavimento sarebbe toccato a lei.

Trascinai Mike all’aria aperta, fresca e umida. Fece un respiro profondo. Jacob ci seguiva da vicino. Mi aiutò a caricare Mike sul sedile posteriore e gli porse il secchiello con uno sguardo serio.

«Per favore», furono le sue uniche parole.

Abbassammo i finestrini, nella speranza di alleviare la sofferenza di Mike con una ventata d’aria gelida. Strinsi le ginocchia tra le braccia per tenermi al caldo.

«Hai ancora freddo?», chiese Jacob, cingendomi con il braccio ancora prima che riuscissi a rispondere.

«Tu no?».

Scosse la testa.

«Secondo me hai la febbre o qualcosa del genere», mormorai. Si gelava. Gli sfiorai la fronte, era davvero calda.

«Ehi, Jake, stai bruciando!».

«Sto bene». Si strinse nelle spalle. «Sano come un pesce».

Incredula, lo toccai di nuovo. La sua pelle ardeva a contatto con le mie dita.

«Hai le mani ghiacciate», disse.

«Forse sono io che non sto bene».

Mike mugolava sul sedile posteriore e vomitò nel secchiello. Io feci una smorfia, sperando che il mio stomaco sopportasse il rumore e la puzza. Jacob lanciava occhiate ansiose alle proprie spalle per assicurarsi che l’auto non subisse danni.

La strada del ritorno sembrò più lunga.

Jacob era muto, pensieroso. Sentivo il suo braccio sinistro addosso, era talmente caldo che neanche il vento gelido m’infastidiva.

Guardavo fuori dal parabrezza, consumata dal senso di colpa.

Non mi sembrava giusto incoraggiare così Jacob. Era puro egoismo. Poco importava che avessi cercato di chiarire la mia posizione. Se sperava che il nostro rapporto potesse trasformarsi in qualcosa di diverso dall’amicizia, allora non mi ero spiegata abbastanza bene.

Ma come potevo farglielo capire? Ero una conchiglia vuota. Come una casa sfitta dopo uno sfratto, per mesi ero stata del tutto inabitabile. Ora stavo un po’ meglio. Il soggiorno era in corso di ristrutturazione. Ma era tutto lì: il resto non era cambiato. Lui meritava molto di più: più di un monolocale, di una residenza temporanea in rovina. E qualsiasi cosa vi avesse investito, non sarebbe mai riuscito a rendermi di nuovo abitabile.

Eppure, sapevo che nonostante tutto non mi sarei mai permessa di allontanarlo. Avevo troppo bisogno di lui ed ero egoista. Forse avrei dovuto descrivergli più chiaramente la mia situazione, così avrebbe capito di dovermi lasciar perdere. A quel pensiero sentii un brivido e Jacob strinse l’abbraccio.

Accompagnai a casa Mike guidando il suo Suburban e Jacob ci seguì per dare poi un passaggio a me. Lungo il tragitto rimase in silenzio, preda di pensieri che forse somigliavano ai miei. Che stesse cambiando idea?

«Visto che siamo in anticipo, potrei autoinvitarmi da te», disse mentre parcheggiava accanto al pick-up. «Ma penso che avessi ragione, a proposito della febbre. Mi sento un po’... strano».

«Oh, no, anche tu no! Vuoi che ti accompagni a casa?».

«No». Scosse la testa, aggrottando le sopracciglia. «Non rischio di vomitare. Però... non sto bene. Meglio non insistere».

«Mi chiami, appena arrivi?», chiesi, ansiosa.

«Certo, certo». Lanciò un’occhiata nell’oscurità davanti a sé, senza aggiungere altro.

Aprii la portiera per scendere, ma lui mi trattenne afferrandomi delicatamente per un polso. Sentii di nuovo la sua pelle scottare a contatto con la mia.

«Cosa c’è, Jake?», domandai.

«Ho una cosa dà dirti, Bella... Ma temo che ti sembrerà un po’ sdolcinata».

Feci un sospiro. Era la continuazione del discorso del cinema. «Dimmi».

«È soltanto che... so che sei parecchio infelice. Magari non servirà a niente, ma volevo dirti che io ci sarò sempre. Non ti deluderò: ti prometto che potrai sempre contare su di me. Caspita, questo sì che è sdolcinato. Ma tu lo sai, vero? Che mai e poi mai ti farei del male?».

«Sì, Jake, lo so. E conto già su di te, forse più di quanto tu sappia».

Il sorriso che apparve sul suo volto era come un sole che incendia le nuvole, e a quel punto avrei voluto tagliarmi la lingua. Non avevo detto nemmeno l’ombra di una bugia, invece avrei dovuto mentire. La verità era brutta, lo avrebbe ferito. Io sì, che lo avrei deluso.