Dai suoi occhi emerse uno sguardo strano. «Penso proprio di dover andare a casa», disse.
Scesi alla svelta.
«Chiamami!», gridai mentre ripartiva.
Lo guardai mentre se ne andava, se non altro sembrava in grado di guidare. Restai a fissare la strada vuota, con un vago senso di nausea, ma non per ragioni fisiche.
Quanto avrei desiderato che Jacob Black fosse stato mio fratello, fratello di sangue, per poter reclamare un legame con lui che non mi facesse sentire in colpa. Mai e poi mai mi sarebbe passato per la testa di approfittare di Jacob, ma non riuscivo a interpretare altrimenti il mio comportamento.
Per di più, non mi era mai passato per la testa di innamorarmene. Una cosa mi era chiara e la sentivo in fondo allo stomaco, al centro delle ossa, dalla punta dei capelli alla pianta dei piedi, e nel mio petto vuoto: chi ama ha il potere di distruggere.
E io ero stata distrutta, sbriciolata.
Eppure, avevo bisogno di Jacob come di una droga. Da troppo tempo era la mia stampella e ormai ero coinvolta più di quanto mi sarei mai aspettata. Non sopportavo l’idea di ferirlo, ma non potevo fare a meno di fargli del male. Era convinto che il tempo e la pazienza mi avrebbero cambiata; ero certa che si sbagliasse di grosso, ma sapevo anche che gli avrei concesso una possibilità.
Era il mio migliore amico. Gli avrei voluto bene per sempre, ma non sarebbe mai, mai stato abbastanza.
Entrai in casa, pronta a sedermi accanto al telefono e a mangiarmi le unghie.
«Già finito il film?», chiese Charlie, sorpreso, quando mi vide spuntare. Era seduto per terra, a trenta centimetri dal televisore. La partita doveva essere entusiasmante.
«Mike è stato male», spiegai. «Una specie di influenza che prende lo stomaco».
«E tu?».
«Per ora sto bene», abbozzai. Ovviamente, rischiavo il contagio.
Mi appoggiai al banco della cucina, le mani a pochi centimetri dal telefono, e cercai di aspettare paziente. Ripensai allo sguardo strano di Jacob, prima che se ne andasse, e iniziai a tamburellare. Avrei dovuto insistere per riaccompagnarlo di persona.
Guardavo l’orologio mentre i minuti correvano. Dieci. Quindici. Anche quando guidavo io, per raggiungere La Push impiegavo quindici minuti, ma Jacob era più veloce di me. Diciotto minuti. Afferrai la cornetta e composi il numero.
Lo lasciai squillare parecchio. Forse Billy dormiva. Forse avevo sbagliato numero. Ci riprovai.
All’ottavo squillo, quando stavo per riattaccare, Billy rispose.
«Pronto?». Sembrava diffidente, come temesse una cattiva notizia.
«Ciao, sono io, Bella. Jake è già tornato a casa? È partito una ventina di minuti fa».
«È qui», rispose imperturbabile.
«Gli avevo detto di chiamarmi». Ero un po’ irritata. «Quando se n’è andato non si sentiva bene, ero in pensiero».
«Stava... troppo male per telefonare. Non si è ancora ripreso». Billy sembrava assente. Probabilmente voleva restare accanto a Jacob.
«Se vi serve aiuto, fatemi sapere. Chiamatemi e arrivo». Immaginai Billy sulla sedia a rotelle e Jacob costretto a curarsi da solo.
«No, no», rispose subito Billy. «Tutto a posto. Resta a casa tua».
Il suo tono rasentava la maleducazione.
«Va bene».
«Ciao, Bella».
Riattaccò.
«Ciao», mormorai.
Be’, se non altro era riuscito ad arrivare a casa. Eppure, la mia preoccupazione non diminuì. Salii le scale, nervosa. Magari sarei andata a trovarlo il giorno dopo, prima del lavoro. Portando con me un po’ di zuppa. Da qualche parte ero sicura di averne ancora un barattolo.
Mi resi conto che il piano era irrealizzabile quando mi svegliai nel cuore della notte—l’orologio segnava le quattro e mezza—per correre in bagno. Mezz’ora dopo, Charlie mi ci trovò sdraiata per terra, con la guancia schiacciata contro il bordo freddo della vasca da bagno.
Restò a guardarmi per qualche istante.
Poi disse: «Influenza allo stomaco».
«Sì», mugugnai.
«Hai bisogno di qualcosa?», chiese.
«Per favore, chiama i Newton», dissi con voce roca. «Digli che mi sono beccata lo stesso virus di Mike, perciò oggi non ce la faccio. E che mi dispiace».
«Certo, stai tranquilla».
Passai il resto della giornata sul pavimento del bagno e dormii per qualche ora con un asciugamano raggomitolato per cuscino. Charlie disse che doveva andare a lavorare, ma probabilmente era una scusa, perché gli serviva il bagno. Per mantenermi idratata, mi lasciò un bicchiere d’acqua sul pavimento.
Al suo rientro mi svegliò. Nella stanza c’era buio, era scesa la notte. Salì le scale per venire a controllare.
«Sei ancora viva?».
«Più o meno».
«Non hai bisogno di niente?».
«No, grazie».
Non sapeva cosa dire, era chiaro che si sentiva come un pesce fuor d’acqua. «Bene, allora», esclamò e tornò in cucina.
Qualche minuto dopo sentii squillare il telefono. Charlie parlò con qualcuno a voce bassa, poi riattaccò.
«Mike sta meglio», disse, dal piano di sotto.
Notizia incoraggiante. Si era ammalato otto ore prima di me. Mancavano otto ore. Al pensiero dell’attesa, il mio stomaco si rivoltò di nuovo e io mi trascinai per l’ennesima volta verso il water.
Mi riaddormentai sull’asciugamano, ma riaprii gli occhi nel mio letto e fuori dalla finestra era chiaro. Non ricordavo di essermi mossa; probabilmente Charlie mi aveva riportata in camera insieme al bicchiere d’acqua, ora sul comodino. Mi sentivo ardere. La tracannai in un sorso, anche se dopo una notte intera aveva un sapore strano.
Mi alzai piano, cercando di non innescare un’altra volta il vomito. Ero debole e sentivo un saporaccio in bocca, ma lo stomaco andava molto meglio. Guardai l’ora.
Le ventiquattr’ore di sofferenza erano terminate.
Ci andai con i piedi di piombo e a colazione mangiai soltanto dei cracker. Charlie sembrava lieto di vedermi in ripresa.
Quando fui sicura che non avrei passato il pomeriggio sul pavimento del bagno, telefonai a Jacob.
Rispose lui, ma il suo saluto mi fece capire che non gli era ancora passata.
«Pronto?». La sua voce era rotta, tremante.
«Oh, Jake, mi dispiace. Stai ancora malissimo, eh?».
«Da schifo», bisbigliò.
«Scusa se ti ho costretto a uscire con me. Che situazione!».
«Io sono contento». La sua voce era un sussurro. «Non prendertela. Non è colpa tua».
«Ti riprenderai presto, vedrai. Stamattina, quando mi sono svegliata, io stavo già meglio».
«Eri ammalata?», chiese, senza energia.
«Sì, l’ho presa anch’io. Ma adesso sto meglio».
«Bene». Sembrava moribondo.
«Perciò, è probabile che anche tu migliori nel giro di qualche ora».
Riuscii a malapena a sentire la sua risposta. «Non credo di avere la stessa cosa che hai preso tu».
«Niente influenza?», chiesi, confusa.
«No. È qualcos’altro».
«Cosa ti senti?».
«Tutto», mormorò. «Dolori in tutto il corpo».
La sofferenza nella sua voce era evidente.
«Come posso aiutarti, Jake? Vuoi che ti porti qualcosa?».
«Niente. Non puoi venire qui», rispose secco. Come Billy, la sera prima.
«Ma ormai ho gli anticorpi», insistetti.
M’ignorò. «Ti richiamo appena posso. Ti farò sapere quando puoi tornare».
«Jacob...».
«Devo andare», disse con improvvisa urgenza.
«Chiamami quando ti senti meglio».
«Va bene», disse e la sua voce aveva un che di strano e amareggiato.
Per un momento rimase zitto. Aspettavo che mi salutasse, ma anche lui restò in attesa.
«Ci vediamo presto», dissi infine.
«Aspetta che sia io a chiamarti», ribadì.
«Va bene... ciao, Jacob».
«Bella». Sussurrò il mio nome e riappese.
10
La radura
Jacob non richiamò.
Billy rispose alla mia prima telefonata e mi disse che suo figlio era ancora a letto. Gli chiesi se lo avesse portato dal medico. Disse di sì ma, per qualche strano motivo, non gli credetti. Continuai a chiamare, per due giorni, ma non rispondeva mai nessuno.