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Feci un sospiro. «Vuoi che lo guardi da sola?».

«No, non preoccuparti, tanto io resto qui a guardare te». Con le dita tracciava disegni immaginari sul mio braccio, facendomi venire la pelle d’oca. «Pensi che piangerai?».

«Probabilmente sì, se seguo la trama».

«Allora cercherò di non distrarti». Ma sentivo le sue labbra sui capelli e quelle mi distraevano, altroché.

Il film riuscì a catturare la mia attenzione, soprattutto grazie a Edward che mi sussurrava nell’orecchio le battute di Romeo. In confronto alla sua voce vellutata e irresistibile, quella del protagonista sembrava rauca, debole. E, con suo gran divertimento, piansi quando Giulietta si svegliò e trovò il marito morto.

«Ti confesso che qui lo invidio un po’», disse Edward, asciugandomi le lacrime con una ciocca dei miei capelli.

«In effetti lei è molto carina».

Rispose con un’espressione disgustata. «Non gli invidio la ragazza... ma la facilità con cui si è suicidato», precisò, punzecchiandomi. «Per voi umani è così facile! Vi basta buttare giù una fialetta di estratto vegetale...».

«Cosa?», esclamai.

«Una volta ci ho dovuto pensare, e grazie all’esperienza di Carlisle sapevo che non sarebbe stato semplice. Non so neanche a quanti tentativi di suicidio sia sopravvissuto lui, all’inizio... dopo essersi reso conto di ciò che era diventato...». Da serio, il suo tono si rifece ironico. «Oltretutto, è ancora in forma smagliante».

Mi voltai per guardarlo in faccia. «Cosa stai dicendo? Cosa vuol dire che una volta ci hai dovuto pensare?».

«La primavera scorsa, quando hai rischiato di... morire...». Fece una pausa per respirare, sforzandosi di apparire ancora rilassato e ironico. «Ovviamente cercavo di concentrarmi per ritrovarti ancora viva, ma una parte di me valutava tutte le alternative. Come ho detto, per me non è facile come per gli esseri umani».

Per un secondo, il ricordo del mio ultimo viaggio a Phoenix mi esplose nella mente frastornandomi. Rivedevo tutto molto chiaramente—il sole accecante, il calore che saliva dal cemento mentre correvo svelta e disperata verso il sadico vampiro che voleva torturarmi a morte. Verso James, che mi aspettava nella sala degli specchi tenendo in ostaggio mia madre—almeno, così credevo. Non avevo capito che era tutto un imbroglio, proprio come James non aveva capito che Edward stava correndo a salvarmi. Ci riuscì per un pelo. Involontariamente, tracciai con le dita il contorno della cicatrice a mezzaluna che portavo sulla mano, sempre un po’ più fredda del resto della mia pelle.

Scossi la testa, come per liberarmi dei brutti ricordi, e cercai di capire cosa volesse dire Edward, mentre mi si apriva una voragine nello stomaco. «Di quali alternative parli?», domandai.

«Be’, non sarei mai riuscito a vivere senza di te». Alzò gli occhi al cielo, come se fosse una considerazione ovvia e infantile. «Ma non sapevo come avrei fatto... sapevo di non poter contare su Emmett e Jasper... perciò pensai di andare in Italia, a scatenare l’ira dei Volturi».

Non potevo credere che dicesse sul serio, ma i suoi occhi dorati risplendevano, fissi su un punto lontano, mentre ripensava a quando aveva deciso di mettere fine alla propria vita. D’un tratto fui presa dalla rabbia.

«Cosa sono i Volturi?», chiesi.

«Una famiglia», rispose ancora con lo sguardo lontano. «Una famiglia di nostri simili, molto antica e potente. Quanto di più vicino abbiamo a una casata reale, più o meno. Da giovane, prima di trasferirsi in America, Carlisle ha vissuto per un po’ con loro in Italia... ricordi la storia?».

«Certo che sì».

Non avrei mai potuto dimenticare la mia prima visita a casa Cullen, l’enorme villa di campagna nascosta nel cuore della foresta vicino al fiume, né la stanza in cui Carlisle—sotto molti aspetti un vero padre per Edward—conservava una parete zeppa di dipinti che raccontavano la storia della sua vita. La tela più vivace, colorata e sgargiante veniva dal periodo che aveva trascorso in Italia.

Ovviamente, ricordavo il quartetto di uomini ritratti in atteggiamento rilassato e con espressione serafica sul balcone più alto che sovrastava il turbine di colori. Benché il quadro fosse antico di secoli, Carlisle, l’angelo biondo, non era cambiato. E ricordavo gli altri tre, i suoi primi amici. Edward non aveva mai usato il nome “Volturi” per il bellissimo trio, due uomini dai capelli neri, l’altro con la chioma bianca come la neve. Li aveva chiamati Aro, Caius e Marcus, protettori notturni delle arti...

«Comunque sia, i Volturi non vanno fatti arrabbiare», proseguì Edward, interrompendo il mio sogno a occhi aperti. «A meno che non si cerchi la morte, o qualunque altra cosa ci tocchi». La sua voce era talmente calma da far apparire banale anche quella prospettiva.

La mia rabbia si trasformò in orrore. Presi il suo volto marmoreo tra le mani e lo strinsi forte.

«Non devi mai, mai, mai più pensare a una cosa del genere!», dissi. «Non importa ciò che potrebbe accadere a me, non ti permetterò di fare del male a te stesso!».

«È un discorso inutile... non ti metterò mai più in pericolo».

«Come se fosse colpa tua! Mi sembrava che avessimo deciso che sono io ad attirare le disgrazie». La rabbia cresceva. «Come ti passa per la testa una cosa del genere?». La sola idea della scomparsa di Edward, anche dopo la mia morte, scatenava un dolore insopportabile.

«E tu, cosa faresti se i ruoli fossero invertiti?», domandò.

«Non è la stessa cosa».

Non sembrava cogliere la differenza. Soffocò una risata.

«Se succedesse qualcosa a te?», chiesi, e a quel pensiero impallidii. «Preferiresti che anch’io mi togliessi di mezzo?».

Sui suoi lineamenti perfetti apparve un’ombra di sofferenza.

«Adesso, penso di capirti... un po’», ammise. «Ma cosa farei io senza di te?».

«Quello che facevi prima che arrivassi a complicarti l’esistenza».

Sospirò. «Per te è tutto così facile».

«Lo è. In fondo non sono così interessante».

Stava per controbattere, ma preferì lasciar perdere. «Discorso inutile», ribadì. Di scatto si ricompose, allontanandomi con delicatezza e facendomi scivolare accanto a lui.

«È Charlie?», chiesi.

Sorrise. Dopo un istante, sentii il rumore dell’auto della polizia che entrava nel vialetto di casa. Strinsi forte la mano di Edward. Era il massimo che mio padre potesse sopportare.

Charlie entrò, con una scatola di pizza tra le mani.

«Ciao, ragazzi». Mi fece un gran sorriso. «Pensavo che almeno il giorno del tuo compleanno ti facesse piacere non dover cucinare né lavare i piatti. Fame?».

«Eccome. Grazie, papà».

Charlie non fece commenti sull’apparente mancanza di appetito di Edward. Era abituato a vederlo saltare la cena.

«È un problema se prendo in prestito Bella, per stasera?», chiese Edward a Charlie quando finimmo di mangiare.

Guardai mio padre. Magari considerava il compleanno un affare di famiglia, con l’obbligo di restare in casa: era il primo che trascorrevo con lui, il primo da quando mia madre Renée si era risposata ed era andata a vivere in Florida, perciò non sapevo cosa aspettarmi.

«Va bene... stasera i Mariners giocano contro i Sox», spiegò Charlie facendo svanire le mie speranze, «perciò non sarò molto di compagnia... qui». Pescò la macchina fotografica che mi aveva regalato, su suggerimento di Renée (con le foto avrei riempito il suo album), e me la lanciò.

Sapeva che non avrebbe dovuto, avevo da sempre qualche fastidioso problema di coordinazione. La macchina mi sfiorò la punta delle dita e cadde per terra. Edward l’afferrò prima che toccasse il linoleum.

«Bella presa», commentò Charlie. «Se stasera dai Cullen ci sarà da divertirsi, Bella, è meglio che scatti qualche foto. Sai com’è tua madre... vorrà vederle ancora prima che tu le faccia».