«Okay». Lontano dagli altri, Jacob sembrava un po’ meno furioso. La sua espressione era leggermente più calma, ma non meno irremovibile. Gli angoli della bocca restavano piegati all’ingiù.
Presi fiato. «Sai già cosa voglio sapere».
Non rispose. Continuava a guardarmi, sprezzante.
Lo fissai negli occhi, in silenzio. Il dolore che esprimeva era snervante. Sentivo un nodo in gola.
«Facciamo due passi?», chiesi, ancora in grado di parlare.
Lui non rispose; la sua espressione non cambiò.
Scesi dal pick-up, mentre occhi invisibili mi spiavano dalla finestra, e iniziai a camminare, in direzione nord. Strisciavo i piedi nell’erba umida e nel fango che costeggiava la strada ma non sentivo altri rumori, perciò sulle prime pensai che Jacob non mi avesse seguita. Invece, appena alzai lo sguardo, lo vidi al mio fianco.
Al riparo degli alberi, lontani da Sam, mi sentivo più sicura. Camminavamo e desideravo con tutte le mie forze di trovare le parole, ma non mi veniva in mente nulla. Finii soltanto per accumulare rabbia, al pensiero che Jacob si fosse lasciato risucchiare... che Billy avesse permesso... che Sam avesse la sfacciataggine di essere tanto calmo e sicuro di sé...
D’un tratto Jacob accelerò il passo, superandomi alla svelta con le sue gambe lunghe, e si voltò verso di me, fermandosi e bloccandomi sul sentiero.
La grazia evidente nei suoi movimenti mi colpì. Jacob, cresciuto così in fretta, era sempre stato goffo quasi quanto me. Quando era cambiato?
Non mi lasciò il tempo di pensarci.
«Facciamola finita», disse con voce secca e roca.
Restai in attesa. Sapeva cosa volevo.
«Non è come pensi». D’improvviso il tono di voce si fece più incerto. «Non è come pensavo... Mi sbagliavo di grosso».
«E allora com’è?».
Studiò la mia espressione a lungo. La rabbia non era sparita del tutto dai suoi occhi. «Non posso dirtelo».
Serrai le mascelle, nervosa, e risposi: «Pensavo fossimo amici».
«Lo eravamo». Mise una leggera enfasi sul verbo al passato.
«Ah, certo. E tu non hai più bisogno di amici», risposi, acida. «Hai Sam. Che bello... in fondo lo ammiri da sempre, no?».
«Prima non lo capivo».
«E poi hai visto la luce. Alleluia».
«Non era come pensavo. Non è colpa di Sam. Sta facendo del suo meglio per aiutarmi». Preso dal nervosismo, guardò oltre le mie spalle, gli occhi traboccanti di rabbia.
«Ma certo», ribadii, dubbiosa. «Ti sta aiutando».
Non mi ascoltava nemmeno. Respirava a fondo, cercando di calmarsi. Era talmente fuori di sé che gli tremavano le mani.
«Jacob, ti prego», sussurrai. «Perché non vuoi dirmi cos’è successo? Magari ti posso aiutare».
«Nessuno può aiutarmi, ormai». Le sue parole erano un gemito cupo, la voce spezzata.
«Cosa ti ha fatto?», chiesi con gli occhi gonfi di lacrime. Lo cercai, come avevo già fatto una volta, avvicinandomi a braccia aperte.
Ma lui si allontanò di scatto, difendendosi a mani alzate. «Non toccarmi», sussurrò.
«Sam ti vede?», mormorai. Quelle stupide lacrime erano sfuggite ai miei occhi. Le spazzai via con il dorso della mano e incrociai le braccia.
«Smettila di dare la colpa a Sam». Le parole schizzarono veloci, automatiche. Con le mani fece per rassettarsi i capelli che non c’erano più e poi le lasciò cadere, inerti, sui fianchi.
«E allora di chi è la colpa?».
Abbozzò un sorriso inquietante, distorto.
«Meglio che non te lo dica».
«E invece sì, dannazione!», sbottai. «Voglio saperlo, e voglio saperlo subito».
«Ti sbagli», replicò.
«Non osare dirmi che ho torto, non sono io la vittima del lavaggio del cervello! Dimmi subito di chi è la colpa, se tutto questo non c’entra con il tuo caro Sam!».
«L’hai voluto tu», ringhiò accecato dalla rabbia. «Se proprio vuoi dare la colpa a qualcuno, perché non punti il dito contro quegli schifosi, fetidi succhiasangue che ti piacciono tanto?».
Restai a bocca aperta e senza fiato, infilzata dalle sue parole come da una lama a doppio taglio. Sentivo che i sussulti familiari del dolore, la voragine che mi squarciava da dentro, erano solo un sottofondo al caos dei miei pensieri. Non potevo credere a ciò che avevo appena udito. Sul suo volto non c’era traccia di indecisione. Soltanto furia.
«Ti ho avvisato che era meglio non parlarne», disse.
«Non capisco cosa vuoi dire», sussurrai.
Mi guardò, torvo e incredulo. «Secondo me lo capisci anche troppo bene. Non vuoi che lo ripeta, vero? Non mi va di farti soffrire».
«Non capisco cosa vuoi dire», ribadii meccanicamente.
«I Cullen», scandì lentamente, osservandomi mentre pronunciava il nome. «Ci ho fatto caso: ti si legge negli occhi cosa succede quando li senti nominare».
Scuotevo forte la testa sia per negare, sia per scrollare via i pensieri. Come faceva a saperlo? E cosa c’entrava con la setta di Sam? Ce l’avevano con i vampiri? Ma che senso aveva, ora che i vampiri se n’erano andati da Forks? Perché mai Jacob avrebbe dovuto credere alle storie sui Cullen, ormai spariti senza lasciare traccia, per non tornare mai più?
Sprecai troppo tempo per arrivare alla risposta giusta. «Non dirmi che adesso credi alle superstizioni scombinate di Billy», dissi in un debole tentativo di ironizzare.
«La sa molto più lunga di quanto immaginassi».
«Sii serio, Jacob».
Mi lanciò un’altra occhiata velenosa.
«A parte le superstizioni», ripresi, «non capisco che motivo abbiate di accusare i... Cullen. Se ne sono andati più di sei mesi fa. Perché dai a loro la colpa di ciò che sta combinando Sam?».
«Sam non combina niente, Bella. Se ne sono andati, lo so anche io. Ma a volte succede... che gli ingranaggi si mettono in moto e a quel punto è troppo tardi».
«Quali ingranaggi? Troppo tardi per cosa? Cos’è che non tolleri di loro?».
Mi ritrovai di colpo il suo viso a un centimetro, gli occhi ardenti e infuriati. «Che esistano», sibilò.
A distrarmi e a sorprendermi giunse la voce di Edward che mi metteva in guardia, benché non mi sentissi in pericolo.
«Tranquilla, Bella. Non esagerare», bisbigliò al mio orecchio.
Da quando aveva abbattuto le mura dentro cui lo avevo rinchiuso con tanto scrupolo, non ero più riuscita a imprigionare il nome di Edward. In quel momento non mi faceva più soffrire, e i secondi in cui sentivo la sua voce erano preziosi.
Jacob, di fronte a me, era su tutte le furie e tremava di rabbia.
Non capivo da dove fosse spuntato l’allarmismo di Edward. Jacob era imbestialito, ma era pur sempre Jacob. Non sentivo l’adrenalina né il pericolo.
«Dagli la possibilità di calmarsi», insistette la voce.
Scossi la testa, confusa. «Sei ridicolo», dissi a entrambi.
«Bene», rispose Jacob, e riprese fiato. «Non voglio discuterne con te. Ormai non importa più, il danno è fatto».
«QUALE DANNO?».
Non fece una piega di fronte al mio strillo.
«Torniamo indietro. Non c’è più niente da dire».
Restai a bocca aperta. «C’è ancora tutto da dire! Non hai ancora detto nulla!».
Si fece da parte e tornò a grandi passi verso casa.
«Oggi ho incontrato Quil», strillai alle sue spalle.
Si fermò senza voltarsi.
«Ricordi il tuo amico Quil? Ecco, è terrorizzato».
Si girò verso di me. Sembrava spaventato. «Quil», disse e non aggiunse altro.
«Anche lui è preoccupato per te. Ha perso la testa».
Jacob mi trapassò con uno sguardo disperato.
Rigirai il coltello nella piaga. «Teme di poter essere il prossimo».
Jacob si strinse a un albero per reggersi in piedi, con una strana sfumatura verdastra sotto la pelle bronzea del volto. «Non sarà il prossimo», mormorò tra sé. «Non può. Ormai è finita. Non è possibile che accada di nuovo. Perché? Perché?». Prese a pugni il tronco. Non era grosso, ma sottile e poco più alto di Jacob. Eppure restai di sasso quando lo vidi spezzarsi sotto i suoi colpi.