«Certo, sì. Ciao». E ricacciò la cornetta al suo posto.
Attraversai il corridoio in punta di piedi e rientrai in camera. Charlie bofonchiava arrabbiato, in cucina.
Quindi secondo Billy era colpa mia. Non tollerava più che nutrissi Jacob di false speranze.
Era strano, io stessa avevo temuto che fosse così ma, dopo ciò che mi ero sentita dire quel pomeriggio, la pensavo diversamente. Dietro quella storia c’era molto più che una cotta non corrisposta ed ero sorpresa che Billy si abbassasse a sostenere una simile ipotesi. Evidentemente, qualsiasi segreto nascondessero, era molto più grande di quanto immaginassi. Se non altro, a quel punto Charlie era passato dalla mia parte.
Indossai il pigiama e m’infilai sotto le coperte. La vita mi sembrava talmente buia da potermi concedere di imbrogliare. La voragine, anzi, le voragini facevano già male, e allora, perché no? Ripescai i ricordi—non quelli reali, che mi avrebbero ferita troppo, ma quelli falsi della voce di Edward che avevo sentito durante il pomeriggio—e li rivisitai senza sosta, fino ad addormentarmi mentre le lacrime scendevano piano sul mio viso assente.
Quella notte feci un sogno nuovo. Pioveva, e Jacob camminava in silenzio al mio fianco, mentre sotto i miei piedi sentivo il crepitio del terreno, simile a quello della ghiaia asciutta. Non era il mio Jacob: era quello nuovo, aspro, aggraziato. La scioltezza e l’agilità dei suoi movimenti mi ricordavano qualcun altro e mentre lo fissavo i suoi lineamenti cambiavano a poco a poco. La tinta bronzea della pelle sbiadì, il volto divenne pallido come osso. Gli occhi si fecero dorati, poi rosso cupo, poi di nuovo dorati. Il vento gli arruffava i capelli cortissimi e, quando li sfiorava, da neri si facevano ramati. E il volto diventava così bello da spezzarmi il cuore. Lo cercavo, ma lui arretrava e alzava le mani come uno scudo. Infine, Edward sparì.
Quando mi svegliai, nell’oscurità, non sapevo se avessi appena iniziato a piangere o se le lacrime fossero sgorgate nel sonno. Fissavo il soffitto buio. Ero certa che fosse notte fonda: ero ancora mezza addormentata, forse più che mezza. Chiusi gli occhi stanchi e pregai di sprofondare in un sonno senza sogni.
In quel momento sentii il rumore da cui probabilmente ero stata svegliata. Qualcosa di affilato grattava la finestra, stridulo, come unghie contro un vetro.
12
Intruso
Spalancai gli occhi impaurita e poco importava che fossi talmente sfinita e rintronata da non rendermi neanche conto se stessi dormendo o no.
Qualcosa grattò di nuovo contro il vetro, con quello stesso rumore sottile e stridulo.
Confusa e imbambolata dal sonno, mi trascinai giù dal letto per avvicinarmi alla finestra, asciugandomi gli occhi pesti e gonfi di lacrime.
Una sagoma enorme e scura dondolava scomposta dall’altra parte del vetro e incombeva come fosse sul punto di sfondarlo. Arretrai di un passo, incerta e terrorizzata, e soffocai un grido.
Victoria.
Era venuta a prendermi.
Stavo per morire.
No, Charlie no!
Strangolai l’urlo che cresceva pian piano. Dovevo restare in silenzio. In un modo o nell’altro. Dovevo fare in modo che Charlie non venisse a indagare...
E poi dalla sagoma scura giunse una voce roca che conoscevo bene. «Bella!», sibilò. «Ahi! Dannazione, apri la finestra! AHI!».
Prima di potermi muovere dovetti aspettare qualche secondo per scrollarmi di dosso la paura, ma alla fine corsi verso la finestra e la aprii di scatto. Le nuvole erano illuminate da una luce fioca, quel poco che bastava a distinguere i contorni delle cose.
«Cosa stai combinando?», chiesi d’un fiato.
Jacob penzolava pericolosamente dalla cima dell’abete che svettava nel giardinetto di fronte a casa di Charlie. Con il suo peso aveva inclinato l’albero verso il muro e ora si dondolava—con le gambe ciondolanti a più di sei metri da terra—a un palmo dal mio naso. I rami sottili, sulla punta, grattarono e scricchiolarono di nuovo contro la parete.
«Sto cercando di mantenere», ansimò, penzolando su e giù assieme all’albero, «...la promessa!».
Sbattei gli occhi umidi e annebbiati, sicura che fosse un sogno.
«E quando mai hai promesso di suicidarti buttandoti dall’albero di Charlie?».
Sbuffò, niente affatto divertito, scalciando nel vuoto per non perdere l’equilibrio. «Togliti di mezzo», ordinò.
«Cosa?».
Un altro dondolio delle gambe, all’indietro e in avanti, per prendere lo slancio. In quel momento capii cosa volesse fare.
«No, Jake!».
Ma fui costretta a farmi da parte, perché era troppo tardi. Con un grugnito, si lanciò verso la finestra aperta.
Sentii nascere un altro grido, temendo che si ammazzasse nella caduta, o si facesse male dopo lo schianto contro i pannelli di legno che ricoprivano la parete. Con mia gran sorpresa, s’infilò agile nella stanza, atterrando sui talloni con un tonfo sordo.
Entrambi controllammo subito la porta, trattenendo il respiro, nel timore che il rumore avesse svegliato Charlie. Pochi istanti di silenzio e sentimmo mio padre russare.
Sul volto di Jacob comparve a poco a poco un ampio sorriso; sembrava molto soddisfatto di sé. Non era il ghigno che conoscevo e amavo: era nuovo, un’amara caricatura della sua vecchia sincerità, sopra un volto che ormai apparteneva a Sam.
Era davvero un po’ troppo.
Per colpa sua ero andata a dormire in lacrime. Il suo rifiuto spietato aveva aperto una nuova e dolorosa voragine in ciò che restava del mio petto. Se n’era andato lasciandosi alle spalle un incubo nuovo, come l’infezione in una piaga. La beffa dopo il danno. E ora, eccolo spuntare nella mia stanza e ridere sotto i baffi come se non fosse successo niente. Per giunta, malgrado tanta goffaggine e chiasso, non potei non ripensare a quando Edward s’intrufolava dalla finestra di notte e il ricordo stuzzicò crudele le ferite non ancora rimarginate.
Tutto questo, sommato alla stanchezza enorme che sentivo addosso, non mi rendeva esattamente che affabile.
«Vattene!», sibilai, tentando di metterci tutto il veleno che potevo.
Lui rimase interdetto, preso in contropiede.
«Ma no», ribatté, «ti porto le mie scuse».
«Non le accetto!».
Cercai di spingerlo fuori dalla finestra: in fin dei conti, se era un sogno, non si sarebbe fatto male. Tentativo inutile. Non lo spostai di un centimetro. Gli tolsi le mani di dosso e mi allontanai svelta.
Era a torso nudo, malgrado l’aria gelata che soffiava dalla finestra e mi faceva tremare di freddo, e toccare il suo petto mi fece sentire a disagio. La pelle era bollente, come la sua fronte l’ultima volta che l’avevo sfiorata. Come se avesse ancora la febbre. Ma non sembrava ammalato. Sembrava enorme. Si chinò verso di me, tanto ingombrante da oscurare l’intera finestra, zittito dalla mia reazione infuriata.
All’improvviso sentii di aver perso il controllo, come se venissi sepolta da una valanga di notti insonni. Ero incredibilmente esausta e spossata, tanto da rischiare il crollo. Malferma e incerta, mi sforzavo di tenere gli occhi aperti.
«Bella?», sussurrò Jacob, ansioso. Mi prese per un gomito per mantenermi in equilibrio e mi guidò verso il letto. Quando lo raggiunsi, le ginocchia cedettero e caddi a peso morto sul materasso.
«Ehi, tutto bene?», chiese, la fronte corrugata dalla preoccupazione.
Alzai lo sguardo verso di lui, le guance ancora rigate di lacrime. «Come fai a pensare che io stia bene, Jacob?».
Sul suo volto, il tormento rimpiazzò la preoccupazione. «Già», disse e riprese fiato. «Merda. Be’... Mi... Mi dispiace, Bella». Erano scuse sincere, senza dubbio, ma nell’espressione di Jacob c’era ancora un velo di rabbia.
«Perché sei venuto? Non voglio scuse da te, Jake».
«Lo so», sussurrò. «Ma non potevo lasciare tutto com’era oggi pomeriggio. È stato orribile. Mi dispiace».