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«Buona idea, Charlie», disse Edward porgendomi la macchina.

La puntai verso di lui e scattai la prima foto. «Funziona».

«Meno male. Ehi, saluta Alice da parte mia. È da un po’ che non la vedo». Una piega amara spuntò da un angolo della bocca di Charlie.

«Da soli tre giorni, papà», gli ricordai. Charlie adorava Alice. Le si era affezionato la primavera precedente, quando mi aveva aiutato durante la mia goffa convalescenza. Charlie le era eternamente grato per avergli evitato l’incubo di dover far la doccia a una figlia quasi adulta. «Glielo dirò».

«Bene. E stasera divertitevi, ragazzi». Con questo ci congedò. Era già pronto ad appropriarsi di salotto e TV.

Edward sorrise trionfante e mi accompagnò per mano fuori dalla cucina.

Giunti al pick-up, mi aprì di nuovo la portiera del passeggero e stavolta non protestai. Al buio mi risultava sempre difficile trovare la deviazione nascosta che portava a casa sua.

Edward attraversò Forks, diretto a nord, visibilmente irritato dal limite di velocità a cui lo costringeva il mio Chevy preistorico. Il motore cigolava più del solito, mentre superavamo gli ottanta all’ora.

«Vacci piano», avvertii Edward.

«Sai cosa farebbe per te? Una bella Audi coupé. Silenziosa e potentissima...».

«Il mio pick-up è perfetto. A proposito di oggetti costosi e superflui, se avessi un po’ di buonsenso non spenderesti un soldo in regali di compleanno».

«Nemmeno un centesimo», fece lui.

«Bene».

«Mi fai almeno un favore?».

«Dipende dal favore».

Fece un sospiro, un’espressione seria apparve sul suo volto adorabile. «Bella, l’ultimo di noi a festeggiare un vero compleanno è stato Emmett, nel 1935. Cerca di capirci, e questa sera non fare troppo la difficile. Sono tutti su di giri».

Quando toccava certi argomenti non riuscivo a non sentire un leggero brivido. «D’accordo, mi comporterò bene».

«Forse dovrei metterti in guardia...».

«Ti prego, fallo».

«Quando dico che sono tutti su di giri... intendo proprio tutti».

«Tutti?». Quasi soffocai. «Pensavo che Emmett e Rosalie fossero in Africa». A Forks si diceva che i due maggiori dei fratelli Cullen fossero andati al college, a Dartmouth, ma io la sapevo lunga.

«Emmett ci teneva».

«E... Rosalie?».

«Lo so, Bella. Non preoccuparti. Farà del suo meglio».

Non risposi. Come se fosse facile non preoccuparmi. Rosalie, la deliziosa e biondissima sorella di Edward, a differenza di Alice tollerava a malapena la mia presenza. Anzi, nei miei confronti provava qualcosa di peggio che semplice antipatia. Per lei ero un’intrusa indesiderata nella vita privata della sua famiglia.

Mi sentivo orrendamente in colpa, convinta com’ero di essere la responsabile dell’assenza prolungata di Emmett e Rosalie, anche se, per quanto riguardava quest’ultima, ero segretamente lieta di non doverla frequentare. Invece Emmett, il simpatico fratello-orso di Edward, mi mancava davvero. Per molti versi era il fratello maggiore che non avevo mai avuto... soltanto molto più spaventoso.

Edward decise di cambiare discorso. «Allora, se non ti va bene l’Audi, che altro regalo vuoi?».

Risposi mormorando: «Sai bene cosa voglio».

Aggrottò le sopracciglia e sulla fronte marmorea comparve una ruga profonda. Probabilmente avrebbe preferito continuare a parlare di Rosalie.

Sembrava che avessimo passato tutto il giorno a discuterne.

«Non stasera, Bella, ti prego».

«Be’, allora magari sarà Alice a darmi ciò che voglio».

Edward ringhiò, un suono profondo e minaccioso. «Questo non sarà il tuo ultimo compleanno, Bella», dichiarò.

«Non è giusto!».

Mi parve di sentirlo digrignare i denti.

Ci avvicinavamo alla meta. Le finestre dei primi due piani di casa Cullen erano tutte accese. Appesa alla veranda spiccava una fila di lanterne giapponesi, il cui bagliore si rifletteva delicato sugli enormi cedri che circondavano l’edificio. Grossi vasi di fiori—rose rosa—decoravano la scalinata di fronte alla porta principale.

Mi lasciai sfuggire un gemito.

Edward fece qualche respiro profondo per calmarsi. «È una festa», ribadì. «Cerca di fare la brava ragazza».

«Certo», mormorai.

Scese ad aprirmi la portiera e mi offrì la mano.

«Ho una domanda».

Restò in attesa, allarmato.

«Se sviluppo questo rullino», dissi giocando con la macchina fotografica, «vi si vedrà nelle foto?».

Scoppiò a ridere. E, senza mai smettere, mi aiutò a scendere, mi guidò lungo le scale e aprì la porta di casa.

Mi aspettavano tutti nel grande salotto bianco; quando entrai mi salutarono in coro, con un «Buon compleanno, Bella!», mentre io, a occhi bassi, arrossivo. Qualcuno, probabilmente Alice, aveva ricoperto ogni centimetro libero di candele rosa e dozzine di vasi di cristallo colmi con centinaia di rose. Su un tavolo, vicino al pianoforte a coda di Edward, sopra una tovaglia bianca spiccavano una torta di compleanno rosa, altri fiori, una pila di piatti di vetro e una piccola montagna di regali avvolti in carta argentata.

Cento volte peggio di quanto immaginassi.

Edward si accorse del mio disagio e per incoraggiarmi mi strinse forte con un braccio, baciandomi sul capo.

Carlisle ed Esme, i suoi genitori—incredibilmente giovani e carini come sempre—erano i più vicini alla porta. Esme mi abbracciò con cautela, sfiorandomi il viso con i capelli morbidi color caramello mentre mi baciava sulla fronte, e Carlisle mi cinse le spalle.

«Mi dispiace, Bella», sussurrò, «ma non siamo riusciti a trattenere Alice».

Dietro di loro c’erano Rosalie ed Emmett. Rosalie non sorrideva, ma perlomeno non m’incenerì con lo sguardo. Il volto di Emmett era illuminato dal sorriso. Non ci vedevamo da mesi e mi ero dimenticata di quanto straordinariamente bella fosse lei—bella quasi da star male. Ed Emmett, era sempre stato così... grosso?

«Non sei cambiata per niente», disse lui fingendosi deluso. «Mi aspettavo di trovarti cambiata e invece eccoti qui, con le guance rosse di sempre».

«Grazie mille, Emmett», risposi arrossendo ancora di più.

Rise. «Devo uscire un attimo», fece una pausa e strizzò l’occhio ad Alice. «Non combinare guai, mentre sono via».

«Ci provo».

Alice lasciò la mano di Jasper e mi si avvicinò, il sorriso sfavillante sotto le luci accese. Anche Jasper sorrideva, mantenendo le distanze. Alto e biondo, era appoggiato al corrimano, ai piedi della scala. Dopo i giorni in cui eravamo stati costretti a tenerci nascosti a Phoenix, pensavo che avesse superato l’avversione nei miei confronti. Invece, appena libero dall’obbligo di proteggermi, era tornato esattamente al punto di partenza, evitandomi ogni volta che poteva. Sapevo che non era una questione personale, ma soltanto una precauzione, e cercavo di non mostrarmene troppo toccata. Jasper aveva ancora qualche problema di adattamento alla dieta dei Cullen: gli era molto più difficile, rispetto agli altri, resistere all’odore del sangue umano, dato che era il meno allenato della famiglia.

«È ora di aprire i regali», dichiarò Alice. Mi prese a braccetto, con la mano fredda, e mi trascinò fino al tavolo con la torta e i pacchetti luccicanti.

Sfoderai la mia migliore espressione da martire. «Alice, ti avevo detto che non volevo nulla...».

«E io non ti ho ascoltata», m’interruppe, sfacciata. «Apri». Mi tolse di mano la macchina fotografica e la rimpiazzò con una grossa scatola quadrata e argentata.

Era tanto leggera da sembrare vuota. Il biglietto diceva che era un regalo di Emmett, Rosalie e Jasper. Senza pensarci, strappai la carta e fissai la scatola.

Era qualcosa di elettrico, con un nome pieno di numeri. Aprii la scatola per capirci qualcosa di più, ma in effetti era vuota.

«Ehm... grazie».

Rosalie riuscì addirittura a sorridere. Jasper sghignazzò. «È un’autoradio per il tuo pick-up», spiegò. «Emmett è andato subito a installarla, così non la potrai rifiutare».