Sam davvero fico? Lo guardai incredula, ma lasciai correre.
«Ma allora, perché non hai il permesso di vedermi?».
«Troppo pericoloso», sussurrò e abbassò lo sguardo.
Le sue parole innescarono un brivido di paura.
Come faceva a sapere tutto? Nessuno ne era al corrente, tranne me.
Ma aveva ragione: il cuore della notte era il momento migliore per cacciare. Meglio che non indugiasse nella mia stanza. Se qualcuno fosse venuto a prendermi, doveva trovarmi sola.
«Se pensassi che è troppo... rischioso», sussurrò, «non sarei venuto. Però, Bella», incrociò di nuovo il mio sguardo, «ti ho fatto una promessa. Non immaginavo che sarebbe stato così difficile mantenerla, ma questo non significa che non ci voglia provare».
Vide l’incertezza sul mio volto. «Dopo quello stupido film», aggiunse, «ti ho promesso che non ti avrei mai fatto del male... Invece, oggi pomeriggio...».
«So che non l’hai fatto apposta, Jake. Va bene così».
«Grazie, Bella». Mi prese la mano. «Farò il possibile per esserti vicino, come ho promesso». Sfoderò un sorriso. Non era il mio né quello di Sam, ma una strana combinazione dei due. «Sarebbe davvero utile che ci capissi qualcosa da sola, Bella. Te ne prego, fai uno sforzo».
Accennai una smorfia. «Lo farò».
«E io cercherò di venire a trovarti presto», sospirò. «Ovviamente loro cercheranno di convincermi a non farlo».
«Non ascoltarli».
«Ci provo». Scosse la testa, poco convinto. «Appena capisci, vieni a dirmelo». In quell’istante accadde qualcosa e le sue mani ricominciarono a tremare. «Se... se vorrai».
«Per quale motivo non dovrei?».
La sua espressione si fece accigliata e cupa, ora apparteneva al cento per cento a Sam. «Be’, una ragione c’è», rispose brusco. «Senti, è davvero ora di andare. Mi faresti un favore?».
Annuii, spaventata dal suo cambiamento repentino.
«Se per caso decidi di non volermi vedere mai più, fammi almeno una telefonata. Per avvertirmi».
«Non accadrà...».
Con un cenno della mano m’interruppe. «Tu fammi sapere».
Si alzò e si avvicinò alla finestra.
«Non fare idiozie, Jake. Rischi di spezzarti la gamba. Usa la porta. Charlie non si accorgerà di niente».
«Stai tranquilla», borbottò e uscì dalla porta. Passandomi accanto indugiò per un istante e mi fissò con l’espressione sofferente di un accoltellato. Mi offrì una mano, implorante.
La strinsi e lui mi avvicinò a sé—con troppa energia—sbalzandomi dal materasso e facendomi scontrare con il suo petto.
«Non si sa mai», mi sussurrò tra i capelli, stringendomi in un abbraccio da orso che quasi mi sbriciolò le costole.
«Non riesco... a respirare!», farfugliai.
Mi lasciò andare all’istante, cingendomi un fianco per impedire che cadessi. Con gentilezza, mi spinse verso il letto.
«Dormi, Bells. Devi rimettere in moto il cervello. So che puoi farcela. Ho bisogno che tu capisca. Non ti perderò, Bella. Non per questa storia».
Raggiunse la porta con un balzo, la aprì piano e sparì. Restai in attesa che pestasse il gradino cigolante della scala, ma non sentii nulla.
Tornai a letto, con la testa che girava. Ero troppo confusa, troppo esasperata. Chiusi gli occhi, cercai di dare un senso alla situazione, ma persi lucidità tanto in fretta da restare disorientata.
Non fu il sonno pacifico e privo di sogni che tanto desideravo, niente affatto. Ero di nuovo nella foresta, vagavo come sempre.
Mi accorsi alla svelta che non era il solito sogno. Prima di tutto, non mi sentivo in dovere di perdermi né di cercare; a guidarmi era l’abitudine, l’azione che compivo ogni volta che mi trovavo laggiù. Neppure la foresta era la stessa. C’era un altro odore, una luce diversa. Al posto dell’aroma umido boschivo, sentivo l’aria salmastra dell’oceano. Il cielo era invisibile, eppure avevo la sensazione che il sole splendesse; le foglie più in alto erano di un brillante verde giada.
Era la foresta che circondava La Push, quella vicina alla spiaggia, ne ero sicura. Sapevo che se fossi riuscita a ritrovare l’oceano avrei rivisto il sole, perciò mi precipitai a testa bassa verso il rumore debole delle onde in lontananza.
A un tratto spuntò Jacob, che mi prese per mano e mi trascinò nell’angolo più buio della foresta.
«Jacob, c’è qualcosa che non va?», chiesi. Il suo volto era quello di un ragazzino spaventato e i capelli di nuovo bellissimi, raccolti in una coda sulla nuca. Mi tirava a sé con tutte le sue forze, ma io resistevo: non volevo entrare nell’oscurità.
«Corri, Bella, devi correre!», sussurrò spaventatissimo.
Fui quasi risvegliata dalla sensazione improvvisa di déjà-vu che mi travolse.
Sapevo perché quel posto mi era familiare. Ci ero già stata, in un altro sogno. Un milione di anni prima, in una vita totalmente diversa. Era il sogno che avevo fatto dopo il pomeriggio della passeggiata sulla spiaggia con Jacob, nella prima notte in cui fui consapevole che Edward fosse un vampiro. Rievocare quella giornata, probabilmente, aveva fatto riemergere il sogno dalle secche della memoria.
A quel punto, con un briciolo di lucidità in più, attesi che tutto si svolgesse come doveva. Una luce veniva verso di me dalla spiaggia. Entro pochi istanti, Edward sarebbe spuntato dalla vegetazione, la pelle che irradiava un bagliore fioco, gli occhi neri e minacciosi. Mi si sarebbe avvicinato sorridendo. L’avrei trovato bello come un angelo, con i canini lunghi e affilati...
Ma stavo andando troppo avanti. Prima doveva accadere qualcos’altro.
Jacob lasciò la mia mano con un gemito. Tra spasmi e tremori, si accasciò ai miei piedi.
«Jacob!», urlai, ma lui non c’era più.
Al suo posto era apparso un enorme lupo dal mantello rossiccio, con lo sguardo scuro e intelligente.
Il sognò deragliò come un treno fuori dai binari.
Non era lo stesso lupo che avevo sognato nella mia vita precedente. Era quello che mi ero ritrovata sotto il naso, nella radura, una settimana prima. Gigantesco, mostruoso, più grosso di un orso.
Mi guardava con intensità, cercando di suggerirmi qualcosa di importante con i suoi occhi intelligenti. Gli occhi familiari, castano scuro, di Jacob Black.
Mi risvegliai urlando a pieni polmoni.
Temevo che stavolta Charlie sarebbe venuto a controllare. Non era il solito grido. Nascosi la testa sotto il cuscino per tentare di soffocare la reazione isterica. Schiacciavo il cotone morbido contro la faccia, forse per scacciare via anche la conclusione a cui ero appena giunta.
Charlie non entrò e alla fine riuscii a zittire il lamento assurdo che mi usciva dalla gola.
Ricordavo, parola per parola, tutto il discorso di Jacob, quel giorno sulla spiaggia, compreso ciò che aveva detto prima di parlarmi dei “freddi”. Soprattutto ciò che aveva detto prima.
«Conosci le nostre vecchie storie, quelle sulle origini dei Quileute?».
«Non tanto».
«Be’, ci sono un sacco di leggende, alcune sembra risalgano al Diluvio Universale. A quanto pare, gli antichi Quileute legarono le loro canoe alla cima degli alberi più alti, per sopravvivere, come Noè e la sua arca». Sorrise, per dimostrarmi la sua scarsa fiducia in quei racconti. «Secondo un’altra leggenda, la nostra gente discende dai lupi, e i lupi sono nostri fratelli da sempre. Le leggi tribali vietano ancora oggi di ucciderli. E poi ci sono le storie che parlano dei freddi».
«I freddi?».
«Sì. Alcune storie che parlano dei freddi sono antiche come quella dei lupi, ma ce ne sono anche di recenti. Secondo la leggenda, il mio bisnonno aveva conosciuto dei freddi. Fu lui a stipulare il patto che vietò loro di entrare nella nostra terra».