Alice mi precedeva sempre.
«Jasper, Rosalie... grazie», dissi con un sorriso, e ripensai alle lamentele di Edward a proposito della radio, quel pomeriggio: evidentemente era tutto combinato. «Grazie, Emmett!», gridai.
Sentii la sua risata tonante rimbombare dal pick-up e anch’io non riuscii a trattenere un sorriso.
«Adesso apri quello mio e di Edward», disse Alice, così entusiasta che la sua voce somigliava a un trillo acutissimo. In mano aveva un piccolo involucro, quadrato e piatto.
Mi voltai e rivolsi a Edward uno sguardo inceneritore. «Avevi promesso».
Prima che potesse rispondere, rispuntò Emmett. «Appena in tempo!», esclamò. Spinse avanti Jasper, che si era avvicinato più del solito per guardare meglio.
«Non ho speso un centesimo», mi rassicurò Edward. Scostò una ciocca di capelli dal mio viso, e un fremito passò sulla mia pelle.
Feci un respiro profondo e mi rivolsi ad Alice. «Dammi», dissi rassegnata.
Emmett ridacchiò divertito.
Afferrai il pacchetto, lo sguardo puntato su Edward, mentre infilavo il dito sotto il bordo del rivestimento per strappare il nastro.
«Oh, cavolo», mormorai, quando la carta mi tagliò il dito; lo alzai per esaminare il danno. Dalla ferita invisibile colava una minuscola goccia di sangue.
Poi accadde tutto molto velocemente.
«No!», ruggì Edward.
Si lanciò verso di me scagliandomi dall’altra parte del tavolo, che si rovesciò insieme alla torta, ai regali, ai fiori e piatti. Atterrai in una pioggia di frammenti di cristallo.
Jasper si scontrò con Edward e il fragore fu lo stesso di una valanga di rocce.
Si sentì un altro suono, un ringhio raccapricciante e cavernoso che nasceva dal petto di Jasper. Cercò di sfuggire alla presa di Edward, mordendo l’aria a pochi centimetri dal suo viso.
Emmett lo afferrò da dietro un istante dopo, bloccandolo nella sua presa d’acciaio, ma Jasper si dimenava, gli occhi impazziti e vuoti puntati verso di me.
Oltre allo spavento, sentivo anche una fitta lancinante. Ero caduta vicino al pianoforte, gettando le braccia in avanti per proteggermi, in mezzo alle schegge di vetro affilate. Dal polso al gomito, ormai il dolore m’invadeva, acuto e bruciante.
Confusa e disorientata, cercai di non badare al rosso vivo del sangue che mi colava dal braccio... e incrociai gli sguardi eccitati di sei vampiri improvvisamente famelici.
2
Punti
L’unico a restare calmo fu Carlisle. Dalla sua voce tranquilla e carismatica trapelavano secoli di esperienza.
«Emmett, Rose, portate fuori Jasper».
Emmett annuì, per una volta senza sorridere. «Andiamo».
Jasper cercò di liberarsi dalla morsa invincibile di Emmett, dimenandosi e tentando di colpire il fratello con i denti in bella mostra, lo sguardo ancora da folle.
Edward, più pallido di un cadavere, sfrecciò al mio fianco, dove si rannicchiò in posizione di difesa. Mostrò i denti serrati e vibrò in un ringhio di avvertimento. Aveva smesso di respirare, lo sentivo.
Rosalie, con una strana espressione compiaciuta sul volto divino, si portò davanti a Jasper—restando a distanza di sicurezza dai denti del fratello—e aiutò Emmett a trascinarlo a forza attraverso la porta a vetri che Esme teneva aperta con una mano, mentre con l’altra si tappava bocca e naso.
Sul suo viso a cuore apparve un’espressione imbarazzata. «Mi dispiace davvero, Bella», esclamò e seguì gli altri in giardino.
«Lascia fare, Edward», mormorò Carlisle.
Un secondo dopo, Edward annuì lento e si rilassò.
Carlisle s’inginocchiò al mio fianco per esaminare il braccio. Mi sentivo pietrificata per lo spavento e cercai di ricompormi.
«Ecco, Carlisle», disse Alice offrendogli un asciugamano.
Scosse la testa. «Troppo vetro nella ferita». Si allungò verso l’orlo della tovaglia bianca e ne strappò un lungo lembo. Me lo annodò attorno al gomito come un laccio emostatico. L’odore del sangue mi frastornava. Mi fischiavano le orecchie.
«Bella», disse Carlisle a bassa voce. «Vuoi che ti porti all’ospedale, o preferisci che me ne occupi io, qui?».
«Qui, per favore», sussurrai. Se mi avesse portata al pronto soccorso, non avrei potuto nascondere nulla a Charlie.
«Prendo la tua borsa», disse Alice.
«Portiamola sul tavolo della cucina», propose Carlisle a Edward.
Edward mi sollevò senza sforzo, mentre Carlisle manteneva la pressione sul braccio.
«Come va, Bella?», chiese.
«Sto bene». Per fortuna non avevo la voce malferma.
Edward era impietrito.
Alice ricomparve. La borsa nera di Carlisle era già sul tavolo assieme a una piccola ma luminosa lampada da lettura, collegata a una presa sulla parete. Edward mi fece accomodare con delicatezza su una sedia e Carlisle ne avvicinò un’altra. Si mise all’opera immediatamente. Edward restò in piedi al mio fianco, sempre protettivo, sempre senza respirare.
«Se vuoi, vai, Edward», sospirai.
«Posso farcela», insistette lui. Ma la mascella era rigida e gli occhi bruciavano per l’intensità della sete che cercava di combattere, molto peggiore di quella che provavano gli altri.
«Non occorre che ti comporti da eroe», dissi. «Carlisle può curarmi anche senza il tuo aiuto. Esci a prendere un po’ d’aria».
Sussultai quando Carlisle mi pizzicò il braccio con qualcosa che pungeva.
«Io resto», decise Edward.
«Perché sei così masochista?», mormorai.
Carlisle decise di intercedere. «Edward, forse è meglio che tu vada a cercare Jasper, prima che ne faccia una tragedia. Ce l’avrà a morte con se stesso e immagino che al momento non voglia parlare con nessuno tranne te».
«Sì», aggiunsi svelta. «Vai a cercare Jasper».
«Potresti anche renderti utile», aggiunse Alice.
Edward, solo contro tutti, ci lanciò un’occhiataccia, ma infine annuì e sfrecciò senza scomporsi verso la porta di servizio della cucina. Non lo avevo più udito respirare da quando mi ero tagliata il dito.
Sentivo il braccio intorpidirsi e addormentarsi pian piano. Il dolore della puntura svanì, ma avevo ben presente il taglio, e per distrarmi da ciò che stava facendo guardavo fisso il volto di Carlisle. Chino sulla ferita, i suoi capelli biondi scintillavano sotto la luce. Sentivo le deboli proteste del mio stomaco nauseato, ma ero decisa a non lasciarmi vincere dalla solita indole schizzinosa. A quel punto non sentivo dolore, ma soltanto una delicata punzecchiatura che cercavo di ignorare. Non era il caso di reagire da bambina e sentirmi male.
Se non fosse stata nel mio campo visivo, non mi sarei accorta di Alice che a un certo punto si alzava e sgattaiolava via dalla stanza. Con l’ombra di un sorriso di scuse sulle labbra, sparì dietro la porta della cucina.
«Be’, sono andati tutti», sospirai. «Guai a chi dice che non sono capace di fare pulizia».
«Non è colpa tua», mi confortò Carlisle, mentre rideva sotto i baffi. «Sono cose che capitano».
«Sarà», commentai, «ma di solito capitano soltanto a me».
Fece un’altra risata.
Tanta calma e tranquillità apparivano ancora più sorprendenti, se confrontate con la reazione degli altri. Sul suo viso non vedevo alcuna traccia di ansia. Procedeva con gesti svelti e sicuri. L’unico suono, a parte quello del nostro respiro, era il plink plink smorzato dei minuscoli frammenti di vetro che cadevano uno alla volta sul tavolo.
«Ma come fai?», chiesi. «Neanche Alice ed Esme...». La mia voce si affievolì e scossi la testa, meravigliata. Benché gli altri avessero seguito in tutto e per tutto la sua scelta di rinunciare alla dieta tradizionale dei vampiri, Carlisle era l’unico che riusciva a sopportare l’odore del mio sangue senza soffrire. Ovviamente, era molto più difficile di quanto desse a vedere.
«Anni e anni di allenamento», rispose. «Ormai mi accorgo a malapena dell’odore».
«Pensi che sarebbe più difficile se ti prendessi un lungo periodo di ferie dall’ospedale? E non fossi più a contatto con il sangue?».