«Forse». Scosse le spalle, ma le mani restarono salde. «Non ho mai sentito il bisogno di una lunga vacanza». Sfoderò un sorriso splendente. «Il mio lavoro mi piace troppo».
Plink plink plink. Ero sorpresa da quanto vetro fosse rimasto nel braccio. Avevo la tentazione di guardare il mucchietto di schegge, ma sapevo che l’idea non avrebbe giovato alla strategia antivomito.
«Cosa ti piace di preciso?», domandai. Non ne capivo il senso... chissà quanti anni di lotta e negazione di sé doveva aver sopportato per riuscire a controllarsi tanto facilmente. E poi volevo che continuasse a parlare: la conversazione mi distraeva dal mal di mare nello stomaco.
I suoi occhi scuri assunsero un’aria calma e pensierosa. «Mah. I momenti che apprezzo di più sono quelli in cui le mie... doti supplementari mi permettono di salvare pazienti che altrimenti non ce la farebbero. È bello sapere che, grazie a ciò di cui sono capace, e alla mia stessa esistenza, la vita di certe persone è migliore. Persino l’olfatto, a volte, è un utile strumento di diagnosi». Un angolo della bocca si curvò in un sorriso.
Meditai sulle sue parole, mentre mi tastava il braccio per accertarsi che non ci fossero più schegge di vetro. Poi cercò altri strumenti nella borsa e sperai che non si trattasse di ago e filo.
«Ti sforzi tanto per farti perdonare qualcosa di cui non hai colpa», gli dissi, mentre un genere diverso di punzecchiatura iniziò a solleticarmi la pelle. «Voglio dire, non hai chiesto tu che fosse così. Non hai scelto questo tipo di vita, eppure ti devi sforzare tanto, per essere coerente con i tuoi principi».
«Non sento di avere qualcosa da farmi perdonare», ribatté. «Come accade a tutti, ho dovuto soltanto arrangiarmi con ciò che mi è toccato».
«Detto così sembra troppo facile».
Esaminò di nuovo il braccio. «Fatto», disse e strappò un filo. «Tutto a posto». Strofinò con cura sulla ferita un grosso cotton fioc, inzuppato in una specie di sciroppo rossastro. Aveva un odore strano; mi fece girare la testa. Mi lasciò anche una macchia sulla pelle.
«All’inizio, però», proseguii, mentre Carlisle completava l’opera con un lungo bendaggio aderente, «come ti è venuto in mente di scegliere una strada alternativa a quella più ovvia?».
Increspò le labbra e sorrise tra sé. «Edward non te l’ha raccontato?».
«Sì. Ma vorrei capire cosa pensi tu...».
D’un tratto si fece serio, forse la sua mente andava nella stessa direzione della mia. Chissà cos’avrei pensato io quando—rifiutavo di considerarlo un se - fosse toccato a me.
«Be’, sai che mio padre era un uomo di chiesa», mormorò, mentre puliva con cura il tavolo, strofinandolo più volte con una garza bagnata. L’odore di alcol mi bruciò il naso. «La sua visione del mondo era intransigente e io avevo iniziato a metterla in dubbio già prima che cambiassi». Carlisle mise in un vaso di cristallo le bende sporche e le schegge di vetro. Non capii cosa stesse facendo nemmeno quando accese il fiammifero. Poi lo vidi gettarlo in mezzo alla garza inzuppata d’alcol e la fiammata improvvisa mi fece sobbalzare.
«Scusa. Così dovremmo stare tranquilli... Quindi, non condividevo il concetto di fede che aveva mio padre. Eppure, nei quasi quattrocento anni trascorsi dal giorno della mia nascita, niente mi ha mai fatto dubitare dell’esistenza di un Dio, in una forma o nell’altra. Nemmeno il mio riflesso allo specchio».
Finsi di esaminare il bendaggio per nascondere la mia sorpresa di fronte alla piega che stava prendendo la discussione. L’ultima cosa che mi sarei aspettata era parlare di religione. Io per prima vivevo lontana dalla fede. Charlie si dichiarava protestante perché lo erano stati i suoi genitori, ma la domenica mattina adorava il fiume con una canna da pesca in mano. Renée provava una nuova chiesa di tanto in tanto ma, come quando flirtava con il tennis, le ceramiche, lo yoga o le lezioni di francese, cambiava idea prima ancora che scoprissi la sua moda del momento.
«Immagino che questo discorso, fatto da un vampiro, ti sembrerà un po’ strano». Sorrise, consapevole che quella parola, pronunciata con tanta leggerezza, riusciva ancora a scuotermi. «Ciò che mi auguro è che anche per noi questa vita abbia un senso. Certo, forse pretendo troppo», aggiunse sbrigativo. «In fondo, siamo già dannati. Ma la mia illusione, forse assurda, è che, se proviamo a fare del nostro meglio, ci verrà riconosciuto».
«Non mi sembra assurda», mormorai. Non riuscivo a immaginare che qualcuno, divinità comprese, potesse restare indifferente di fronte a Carlisle. Inoltre, l’unica idea di paradiso che potevo considerare doveva per forza includere anche Edward. «E non credo di essere l’unica a pensarlo».
«Al contrario, sei la prima a dichiararsi d’accordo con me».
«Gli altri non la vedono così?», chiesi stupita, e pensai a una persona in particolare.
Carlisle indovinò di nuovo dove volessi andare a parare. «Edward è d’accordo fino a un certo punto. Per lui Dio e il paradiso esistono... così come l’inferno. Ma non crede che per quelli come noi ci sia un aldilà». La voce di Carlisle era dolce. Adesso fissava fuori della finestra, sopra il lavandino, nell’oscurità. «Vedi, secondo lui siamo esseri che hanno perso l’anima».
Ripensai immediatamente alle parole di Edward, nel pomeriggio: a meno che non si cerchi la morte, o qualunque altra cosa ci tocchi. Una lampadina si accese nella mia testa.
«Questo è il problema, vero?», dissi. «Ecco perché fa tanto il difficile con me».
Carlisle parlò lentamente. «Guardo mio... figlio, la sua forza, la sua bontà, la luce che irradia ovunque. E ciò non fa che rafforzare, più di ogni altra cosa, la speranza, la fede. Com’è possibile che non esista qualcosa di più, per uno come Edward?».
Annuii, totalmente d’accordo.
«Ma se io la pensassi come lui...». Abbassò su di me uno sguardo impenetrabile. «Se tu la pensassi come lui. Te la sentiresti di privarlo della sua anima?».
Il modo in cui aveva formulato la domanda mi zittì. Se si fosse trattato di rischiare la mia anima per Edward, la risposta sarebbe stata ovvia. Ma io avrei messo a repentaglio l’anima di Edward? Serrai le labbra, infelice. Non era uno scambio equo.
«Questo è il problema».
Scossi la testa, consapevole dell’espressione decisa sul mio volto.
Carlisle fece un sospiro.
«La scelta è mia», insistetti.
«Anche sua». Prima che potessi ribattere, alzò una mano. «Se lui fosse capace di farlo a te».
«Non è l’unico che potrebbe...». Fissai Carlisle come per interrogarlo.
Rise e alleggerì bruscamente la conversazione. «Ah, no! Questa la devi risolvere con lui». Poi aggiunse: «Ecco un’altra cosa di cui non riesco a essere sicuro. Per molti versi, ritengo di aver fatto del mio meglio con ciò che mi è stato messo a disposizione. Ma è stato giusto condannare gli altri a questa vita? Non riesco a decidere».
Non risposi. Immaginai cosa sarebbe stata la mia esistenza se Carlisle avesse resistito alla tentazione di cambiare la propria vita solitaria... e rabbrividii.
«Fu grazie alla madre di Edward che mi decisi». La voce di Carlisle era quasi un sussurro. Fissava il vuoto, al di là della finestra scura.
«Sua madre?». Ogni volta che cercavo di parlare con Edward dei suoi genitori, rispondeva che erano morti tanto tempo fa e che ne aveva soltanto qualche ricordo sbiadito. Mi resi conto che Carlisle, per il poco che li avesse conosciuti, doveva conservarne una memoria precisa.
«Sì. Si chiamava Elizabeth. Elizabeth Masen. Il padre, Edward Senior, non riuscì a riprendere conoscenza, in ospedale. La prima ondata di influenza lo uccise. Elizabeth invece restò lucida quasi fino alla fine. Edward le somiglia molto: aveva lo stesso colore di capelli, singolarmente bronzeo, e gli occhi erano verdi, proprio come i suoi».
«Aveva gli occhi verdi?», mormorai, cercando di immaginarlo.
«Sì...». Le iridi ocra di Carlisle erano lontane un centinaio di anni. «Elizabeth si preoccupava ossessivamente del figlio. Pregiudicò le proprie speranze di sopravvivere perché si ostinava ad assisterlo dal letto in cui era ricoverata. Temevo che il primo ad andarsene potesse essere lui, le sue condizioni erano molto peggiori di quelle della madre. La fine la colse all’improvviso. Appena dopo il tramonto, ero arrivato a dare il cambio ai medici a cui spettava il turno di giorno. All’epoca era difficile fingere: il lavoro era tanto e io non avevo bisogno di riposarmi. Odiavo dover tornare a casa, nascondermi nel buio e fingere di dormire mentre tante persone morivano.