Andai subito a controllare Elizabeth e suo figlio. Mi ci ero affezionato, il che è sempre un pericolo, considerato quanto è fragile la natura umana. Capii all’istante che le condizioni di lei si erano bruscamente aggravate. La febbre era incontrollabile, il fisico troppo debilitato per continuare a combattere.
Eppure, mentre mi fissava dal letto, non sembrava debole.
“Salvalo!”, m’implorò rauca, con tutto il fiato che le era rimasto in gola.
“Farò il possibile”, fu la mia promessa, mentre le stringevo la mano. La febbre era talmente alta che probabilmente nemmeno si accorse del freddo innaturale delle mie dita. A contatto con la sua pelle, tutto sembrava freddo.
“Devi”, insistette, stringendomi la mano così forte da darmi la speranza che potesse superare la crisi. Il suo sguardo era duro, come la pietra, come lo smeraldo. “Devi fare tutto ciò che puoi. Ciò che agli altri non è consentito, ecco cosa devi fare per il mio Edward”.
Riuscì a spaventarmi. Mi fissava con quello sguardo penetrante e per un istante ebbi la certezza che avesse scoperto il mio segreto. Poi fu sopraffatta dalla febbre e non riprese più conoscenza. Un’ora dopo morì.
Da decenni meditavo sulla possibilità di crearmi un compagno. Una creatura che sapesse chi ero, e non chi fingevo di essere. Ma non avevo mai trovato una buona giustificazione per infliggere a qualcun altro ciò che io stesso avevo subito. Ed ecco Edward, nel letto, morente. Gli restavano poche ore, era evidente. Accanto a lui, sua madre, l’espressione non ancora pacificata, nemmeno nella morte».
Carlisle rivide la scena, un secolo di distanza non aveva scalfito il ricordo. Mentre parlava, immaginavo nei particolari il clima angosciante dell’ospedale, l’atmosfera opprimente di morte. Edward arso dalla febbre, la sua vita che si affievoliva a ogni rintocco dell’orologio... Sentii un altro brivido e cercai di scacciare l’immagine dalla mente.
«Non smettevo di pensare alle parole di Elizabeth. Come poteva aver capito ciò che ero in grado di fare? Possibile che augurasse al figlio un destino del genere?
Guardai Edward. Pur nella malattia, era bello. C’era qualcosa di puro e di buono nel suo volto. Il genere di viso che avrei voluto appartenesse a mio figlio...
Dopo anni di indecisione, agii d’istinto. Prima portai sua madre all’obitorio, poi tornai a prenderlo. Nessuno si accorse che respirava ancora. Non c’erano né mani né occhi a sufficienza per occuparsi di tutti i pazienti. Nell’obitorio non c’era nessuno... che fosse ancora vivo. Lo feci uscire di nascosto dal retro e passando per i tetti lo portai a casa mia.
Non sapevo bene come fare. Decisi di riprodurre le ferite che mi erano state inferte tanti secoli prima, a Londra. In seguito me ne pentii. Fu molto più doloroso e prolungato del necessario.
Eppure non mi sentivo in colpa. Né mi sono mai pentito di avere salvato Edward». Scosse la testa e tornò al presente. Mi sorrise. «Forse è meglio che ti riporti a casa».
«Ci penso io», disse Edward. Attraversò la sala da pranzo buia, a passo più lento del solito. L’espressione del viso era composta, sfuggente, ma c’era qualcosa che non andava nello sguardo: qualcosa che si sforzava di nascondere. Il mio stomaco protestò con uno spasmo.
«Posso andare con Carlisle», dissi. Mi guardai la camicia; il cotone azzurro era inzuppato e macchiato di sangue. La spalla destra incrostata di liquido rosa e denso.
«Sto bene». Edward sembrava imperturbabile. «Però devi cambiarti. Se Charlie ti vede così, gli verrà un infarto. Chiedo ad Alice di procurarti qualcosa». E sfrecciò di nuovo fuori della cucina.
Guardai Carlisle, inquieta. «È molto arrabbiato».
«Sì. Serate come questa sono ciò che teme più di ogni cosa. Vederti messa a rischio a causa della nostra natura».
«Non è colpa sua».
«Ma nemmeno tua».
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi saggi e belli.
Carlisle mi offrì la mano e mi aiutò ad alzarmi dal tavolo. Lo seguii in salone. Esme era tornata e puliva il pavimento nel punto in cui ero caduta—con la candeggina, a giudicare dall’odore.
«Esme, lascia fare a me». Mi sentii di nuovo arrossire.
«Ho finito». Sorrise. «Come stai?».
«Bene», la rassicurai. «Carlisle è più svelto di tutti i dottori che mi hanno ricucita finora».
Ridacchiarono entrambi.
Alice ed Edward riapparvero dal retro. Alice corse svelta al mio fianco, ma Edward rimase distante, con un’espressione indecifrabile sul viso.
«Su», disse Alice. «Cerchiamo dei vestiti meno macabri».
Trovò una camicia di Esme, di un colore simile alla mia. Charlie non se ne sarebbe accorto, ne ero sicura. Il bendaggio lungo e bianco sul braccio non sembrava neanche così serio, senza macchie di sangue sui vestiti. E ormai Charlie non faceva più caso alle mie bende o ai cerotti.
«Alice», sussurrai mentre stava per uscire.
«Dimmi». Mi rispose anche lei a bassa voce e mi guardò con curiosità, il capo leggermente inclinato.
«Se l’è presa tanto?». Forse parlare sottovoce era uno sforzo inutile. Eravamo al primo piano, con la porta chiusa, ma non era detto che lui non ci sentisse.
Lei s’irrigidì. «Ancora non so».
«Jasper come sta?».
Fece un sospiro. «Ce l’ha con se stesso. Per lui è una prova ancora difficilissima e detesta sentirsi debole».
«Non è colpa sua. Digli che non sono arrabbiata, nemmeno un po’, te ne prego».
«Certo».
Edward mi aspettava all’ingresso. Quando giunsi ai piedi della scala, aprì la porta senza proferire parola.
«Le tue cose!», gridò Alice mentre mi avvicinavo cauta a Edward. Recuperò da sotto il pianoforte i due pacchetti, uno dei quali mezzo aperto, e la macchina fotografica, e me li ficcò sotto il braccio buono. «Mi ringrazierai dopo, quando li avrai aperti».
Esme e Carlisle mi augurarono entrambi una serena notte. Notai le occhiate che lanciavano al figlio, impassibile, più o meno come me.
Uscire fu un sollievo, mi lasciai svelta alle spalle le lanterne e le rose. Edward camminava al mio fianco in silenzio. Aprì la portiera dalla parte del passeggero e salii in macchina senza lamentarmi.
Sul cruscotto c’era un grande fiocco rosso, appiccicato all’autoradio nuova. Lo strappai e lo gettai a terra. Mentre Edward saliva dall’altro lato, scalciai il fiocco sotto il sedile.
Non guardò né me né l’autoradio, che restò spenta mentre il silenzio fu come moltiplicato dall’improvviso rombo del motore. Edward imboccò a velocità esagerata il vialetto buio, tutto curve.
Il silenzio mi faceva impazzire.
«Di’ qualcosa», implorai infine, mentre lui svoltava verso l’autostrada.
«Cosa vuoi che dica?», chiese lui, distaccato.
Rabbrividii di fronte a tanta freddezza. «Che mi perdoni».
Sul suo volto riapparve una scintilla di vitalità: una scintilla di rabbia. «Perdonarti? Di cosa?».
«Se fossi stata più attenta non sarebbe successo niente».
«Bella, ti sei tagliata un dito con della carta... non credo che sarai condannata a morte».
«Comunque è colpa mia».
Con quella frase scatenai l’alluvione.
«Colpa tua? Se ti fossi tagliata a casa di Mike Newton, assieme a Jessica, Angela e agli altri tuoi amici normali, cosa avresti rischiato di tanto disastroso? Di non trovare le bende? Se fossi inciampata e crollata su una pila di piatti di vetro da sola, senza che qualcuno ti ci avesse scaraventato, anche in quel caso, cosa avresti rischiato? Di sporcare i sedili dell’auto mentre ti portavano al pronto soccorso? Magari Mike Newton ti avrebbe tenuta per mano mentre ti ricucivano, e sarebbe rimasto là senza essere costretto a combattere contro l’istinto di ucciderti. Non pensare che sia colpa tua, Bella. Non faresti altro che rendermi ancora più nauseato da me stesso».