«Bella?», chiese Rosalie, con delicatezza.
Riaprii gli occhi, sorpresa. Era la prima volta che mi rivolgeva direttamente la parola.
«Sì, Rosalie?», risposi, esitante.
«Mi dispiace tanto. Tutto questo mi ha fatto sentire malissimo, ti ringrazio di cuore per il coraggio con cui hai salvato mio fratello dopo ciò che ho combinato. Ti prego di perdonarmi, se puoi».
Le sue parole erano goffe, spezzate dall’imbarazzo, ma sembravano sincere.
«Ma certo, Rosalie», mormorai, per cogliere al volo la possibilità di farmi odiare un po’ meno. «In fondo non è colpa tua. Sono stata io a tuffarmi da quel maledetto scoglio. Certo che ti perdono».
Le parole sgorgarono come poltiglia.
«Finché non torna lucida, non vale, Rose», ridacchiò Emmett.
«Sono lucida», risposi, ma parve un sospiro confuso.
«Lasciala dormire», insistette Edward, con voce un po’ più serena.
Il silenzio era rotto soltanto dalle vibrazioni delicate del motore. Dovevo essermi addormentata, perché mi sembrò che fossero trascorsi solo pochi secondi quando la portiera si aprì ed Edward mi aiutò a scendere dall’auto. Non riuscivo ad aprire gli occhi. Sulle prime pensai che fossimo ancora in aeroporto.
Poi sentii Charlie. «Bella!», urlò, da lontano.
«Charlie», farfugliai, cercando di vincere il torpore.
«Sssh», sussurrò Edward. «Va tutto bene. Sei a casa, al sicuro. Ora dormi».
«Non riesco a credere che tu abbia il coraggio di mettere piede qui». Charlie urlava contro Edward, avvicinandosi.
«Smettila, papà», mormorai. Non mi sentì.
«Cosa le è successo?», chiese.
«È soltanto stanchissima», rispose Edward, tranquillo. «La lasci riposare».
«Non osare darmi ordini!», strillò Charlie. «Ridammela. Toglile le mani di dosso!».
Edward cercò di passarmi a Charlie, ma le mie dita strette e tenaci non mollavano la presa. Mio padre mi strattonava un braccio.
«Smettila, papà», dissi, a voce più alta. Riuscii ad aprire gli occhi per fissarlo, annebbiata. «Prenditela con me».
Eravamo di fronte alla casa. La porta d’ingresso era aperta, e le nuvole troppo dense per capire che ora fosse.
«Puoi starne certa», promise Charlie. «Entra subito».
«Va bene. Lasciami andare», sussurrai.
Edward mi aiutò ad alzarmi. Ero in piedi ma non sentivo le gambe. Mi sforzai comunque di trascinarmi in avanti, finché non mi vidi a un centimetro dal marciapiede. Edward mi aveva presa al volo, appena prima dell’impatto.
«Lasci almeno che l’accompagni di sopra», disse Edward. «Poi me ne vado».
«No», urlai, nel panico. Non avevo ancora avuto nessuna risposta. Doveva restare e dirmi tutto, no?
«Non sarò lontano», mi promise lui, sussurrando piano all’orecchio perché Charlie non sentisse.
Non udii la risposta di Charlie, ma Edward si diresse in casa. Riuscii a tenere gli occhi aperti fino alle scale. L’ultima cosa che sentii furono le mani fredde di Edward che scioglievano la presa delle mie dita dalla sua camicia.
23
La verità
Mi sembrava di aver dormito per un’eternità. Il mio corpo era rigido, come se per tutto quel tempo fosse rimasto immobilizzato, e i miei pensieri confusi e lenti. Nella testa si muoveva un groviglio di sogni—sogni e incubi—strani e variopinti. Vividissimi. Il terrore e il paradiso congiunti in una mescolanza bizzarra. Impazienza pungente e paura riempivano il solito sogno frustrante in cui non riuscivo a correre abbastanza veloce... E c’erano tantissimi mostri, nemici dagli occhi rossi composti, educati, per questo ancora più spaventosi, e di cui ricordavo persino tutti i nomi. Ma l’emozione più nitida e potente del sogno non era l’orrore, perché colui che vedevo meglio di tutti era l’angelo.
Fu difficile abbandonarlo e svegliarmi. Era un sogno che non chiedeva di essere sepolto nella cripta onirica che mi rifiutavo di visitare. Mi sforzai di emergerne, mentre recuperavo lucidità e mi concentravo sul mondo reale. Non ricordavo che giorno della settimana fosse, ma ero sicura che ad aspettarmi ci fossero Jacob, il lavoro o qualcosa del genere. Respirai a fondo, chiedendomi come avrei affrontato la giornata.
Qualcosa di freddo mi sfiorò la fronte con delicatezza.
Con tutte le forze cercai di non riaprire gli occhi. Evidentemente stavo ancora sognando e il sogno era straordinariamente verosimile. Ma ormai stavo per svegliarmi, e sapevo che tra pochi secondi sarebbe sparito.
Mi resi anche conto che sembrava troppo reale, troppo vero per gioirne. Le braccia solide che pensavo mi avvolgessero erano fin troppo concrete. Se non mi fossi decisa a riaprire gli occhi, me ne sarei pentita. Con un sospiro di rassegnazione, spalancai le palpebre per spezzare l’illusione.
«Ah!», esclamai e mi coprii gli occhi con i pugni.
Già, avevo proprio esagerato. Era stato un errore lasciar correre l’immaginazione a briglia sciolta. Be’, forse “lasciare” era il termine sbagliato. L’avevo costretta a correre a briglia sciolta all’inseguimento delle mie allucinazioni e avevo perso il controllo.
Mi bastò meno di mezzo secondo per decidere che, visto che ero impazzita del tutto, mi sarei goduta le illusioni, fintanto che fossero piacevoli.
Riaprii gli occhi: Edward era sempre lì, il volto perfetto a pochi centimetri dal mio.
«Ti ho spaventata?». C’era un filo d’ansia nel suo sussurro.
Per essere un’illusione, era splendidamente reale. Il viso, la voce, il profumo, tutto era molto meglio di quando ero annegata. Il bellissimo prodotto della mia immaginazione scrutava allarmato le mie mutevoli espressioni. L’iride dei suoi occhi era nerissima, cerchiata da occhiaie che sembravano ustioni. Ciò mi sorprese: di solito, l’Edward delle mie allucinazioni era meglio nutrito.
Sbattei le palpebre due volte, nel tentativo disperato di ricordare l’ultima cosa senz’altro vera che avessi visto. Alice faceva parte del sogno, forse non era mai ritornata. Pensavo fosse venuta a trovarmi il giorno in cui avevo rischiato di morire annegata...
«Oh, merda», gracchiai. Avevo ancora la gola secca per il sonno.
«Che c’è che non va, Bella?».
Lo guardai, torva e infelice. Il suo volto sembrava ancora più ansioso di prima.
«Sono morta, vero?», mi lamentai. «Sono annegata. Merda, merda, merda! Charlie ci resterà secco».
Anche Edward si accigliò. «Non sei morta».
«E allora perché non mi sveglio?», chiesi, sfidandolo con un’occhiata.
«Sei già sveglia, Bella».
Scossi la testa. «Certo, certo. È ciò che vuoi che io pensi. E poi, quando mi sveglierò, sarà il peggio del peggio. Se mi sveglierò, il che non avverrà, perché sono morta. Orribile. Povero Charlie. E Renée, e Jake...». Restai senza parole, terrorizzata da ciò che avevo combinato.
«Mi rendo conto che tu possa avermi scambiato per un incubo», sorrise in modo fugace e triste, «ma non riesco a immaginare cosa potresti aver fatto di tanto brutto da finire all’inferno. Ne hai ammazzati molti, in mia assenza?».
Risposi con una smorfia. «Certo che no. Se fossi all’inferno, tu non saresti con me».
Sospirò.
Mi stavo riprendendo. Senza volerlo fare realmente, allontanai lo sguardo dal suo viso per un secondo, guardai la finestra aperta e scura, poi tornai a lui. Iniziai a ricordare i dettagli... e sentii un rossore debole e poco familiare invadermi le guance, assieme alla certezza che Edward fosse davvero accanto a me e che stessi sprecando il mio tempo comportandomi da idiota.
«Perciò... è successo davvero?». Era quasi impossibile ridefinire il mio sogno come realtà. Non riuscivo a capacitarmene.
«Dipende». Il sorriso di Edward era ancora trattenuto. «Se ti riferisci al fatto che abbiamo rischiato di farci massacrare in Italia, la risposta è sì».
«Strano», commentai. «Sono stata in Italia davvero. Sai che non ero mai andata più a est di Albuquerque?».
Alzò gli occhi al cielo. «Forse è meglio che torni a dormire. Stai delirando».