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«Non sono più stanca». Ormai tutto era chiaro. «Che ore sono? Quanto ho dormito?».

«È l’una di notte passata. Direi che dormi da quattordici ore».

Mi stiracchiai. Ero tutta intorpidita.

«E Charlie?», domandai.

Edward aggrottò la fronte. «Dorme. Devo farti presente che in questo momento sto infrangendo le regole. Be’, tecnicamente no, perché mi ha vietato di oltrepassare la porta di casa tua e io sono entrato dalla finestra, ma... be’, ecco, l’intenzione era quella».

«Charlie ti ha bandito da qui?», chiesi, e l’incredulità si trasformò in ira.

Il suo sguardo era triste. «Cosa ti aspettavi?».

Il mio, di sguardo, era folle di rabbia. Dovevo fare due chiacchiere con mio padre e cogliere l’occasione per ricordargli che ormai ero maggiorenne. Certo, non me ne importava granché, ma era una questione di principio. Presto non ci sarebbe più stata ragione di imporre un simile divieto. Indirizzai i pensieri su strade meno accidentate.

«Qual è la versione?», chiesi curiosa nel tentativo disperato di parlare sinceramente restando allo stesso tempo padrona di me stessa, in modo da non spaventarlo con il desiderio frenetico e lacerante che infuriava dentro di me.

«In che senso?».

«Cosa racconto a Charlie? Con quale scusa giustifico un’assenza di... quanto tempo sono stata lontana da casa?». Cercai di fare il conto delle ore.

«Soltanto tre giorni». Abbassò lo sguardo e sorrise, più spontaneo. «A dire la verità, speravo che potessi avere tu una buona idea. A me non è venuto in mente nulla».

«Favoloso», borbottai.

«Be’, magari Alice si inventerà qualcosa», aggiunse, cercando di confortarmi.

E ci riuscì. Cosa importava ciò che avrei dovuto affrontare? Non dovevo sprecare nessuno dei preziosi momenti che lui trascorreva con me così vicino, con il volto perfetto illuminato dalla fioca luce del display della radiosveglia.

«Allora», dissi, e scelsi come prima domanda la meno importante e tuttavia per me vitale. Mi aveva riportata a casa sana e salva, perciò poteva decidere di andarsene in qualsiasi momento. Dovevo farlo parlare. Inoltre, senza il suono della sua voce quel paradiso temporaneo non era completo. «Cos’hai fatto di bello fino a tre giorni fa?».

La sua espressione si fece all’istante preoccupata. «Niente di così eccitante».

«Certo che no», mormorai.

«Perché fai quella faccia?».

«Be’...». Corrugai le labbra, pensierosa. «È proprio ciò che risponderesti se, in fin dei conti, fossi un sogno. La mia immaginazione dev’essere un po’ a secco».

Sospirò. «Se te lo dico, ti convincerai che questo non è un incubo?».

«Un incubo!», ripetei sdegnata. Restò in attesa di una risposta. «Forse», dissi dopo averci pensato qualche secondo, «a patto che tu me lo dica».

«Sono stato... a caccia».

«Non sai dire di meglio? Questo non basta affatto a dimostrare che sono sveglia».

Dopo un breve silenzio, scelse le parole con cura. «Non ero a caccia per nutrirmi... A dire la verità mi stavo allenando a... seguire le tracce. Non sono molto bravo».

«E cos’hai inseguito?», chiesi incuriosita.

«Niente di rilevante». Le sue parole stonavano con l’espressione del viso. Sembrava nervoso, a disagio.

«Non capisco».

Restò in silenzio, con un’espressione combattuta, illuminata dallo strano bagliore verde della sveglia.

«Io...», fece un respiro profondo, «ti devo delle scuse. No, certo, ti devo molto, molto di più. Ma devi sapere», le parole iniziarono a scorrere veloci, come quando era agitato, e fui costretta a concentrarmi per capirle tutte, «che non avevo idea. Non mi sono reso conto del disastro che mi ero lasciato alle spalle. Pensavo che qui fossi al sicuro. Non avevo dubbi. E non immaginavo che Victoria», mostrò i denti, pronunciando il suo nome, «sarebbe tornata. Devo ammettere di aver badato molto di più ai pensieri di James che ai suoi, il giorno del nostro incontro. Non ho intuito che avremmo scatenato una reazione simile. Che fossero così legati. E ora capisco perché: si fidava di lui e il pensiero che avrebbe fallito non l’ha mai sfiorata. L’eccesso di sicurezza le offuscava i pensieri e mi ha impedito di percepire quanto fosse profondo il legame tra loro.

Non che ci siano scuse per ciò che ti ho inflitto. Quando ho sentito ciò che hai detto ad Alice—ciò che lei stessa ha visto—e quando mi sono reso conto di averti costretta a mettere la tua vita nelle mani di licantropi immaturi e volubili, la cosa peggiore al mondo, esclusa Victoria...». Trasalì e per un secondo gli mancarono le parole. «Sappi che non avevo idea che sarebbe andata così. Sono amareggiato nel profondo, anche oggi che ti vedo al sicuro tra le mie braccia. Non c’è modo più miserabile di scusarmi per...».

«Smettila», dissi. Di fronte al suo sguardo sofferente, cercai le parole giuste, quelle che lo avrebbero liberato dall’obbligo inesistente che tanto dolore gli aveva causato. Erano difficili da pronunciare. Forse non sarei stata in grado di tirarle fuori senza crollare. Ma dovevo cercare di fare le cose per bene. Non potevo diventare un’eterna fonte di senso di colpa e rimorso. Volevo che Edward fosse felice, a qualsiasi costo.

Avevo sperato di arrivare a quel punto un po’ più tardi. Così, rischiavo di anticipare la fine di tutto.

Allenata com’ero a mantenere un atteggiamento normale di fronte a Charlie, riuscii a conservare un’espressione neutra.

«Edward», dissi con la gola che mi ardeva. Sentivo il fantasma della voragine che attendeva di aprirsi un’altra volta, non appena se ne fosse andato. Non sapevo come sarei sopravvissuta. «Smettila, una volta per tutte. Non puoi ostinarti a vederla così. E non puoi lasciare che sia... il senso di colpa... a condizionarti la vita. Non puoi considerarti responsabile di tutto ciò che mi accade. Non è colpa tua, fa soltanto parte della mia vita attuale. Perciò, se inciampo e finisco sotto un autobus, o qualunque cosa mi capiti, devi renderti conto che non sei obbligato a provare alcun rimorso. Non puoi scappare in Italia perché non sei riuscito a salvarmi. Anche se mi fossi lanciata da quello scoglio per morire, sarebbe stata una scelta mia, non colpa tua. So che è nella tua... natura sentirti responsabile di tutto, ma davvero non puoi permetterti di esagerare in questo modo! È un atteggiamento sconsiderato. Pensa a Esme, a Carlisle e...».

Stavo per perdere il controllo. Mi fermai per riprendere fiato e cercare di calmarmi. Dovevo lasciarlo andare. Dovevo assicurarmi che quella situazione non si ripetesse mai più.

«Isabella Marie Swan», sussurrò, sul viso un’espressione strana, quasi da pazzo, «credi davvero che io abbia chiesto ai Volturi di uccidermi perché mi sentivo in colpa?».

Mi si leggeva in faccia che non capivo. «Non è così?».

«Certo che mi sentivo in colpa. Molto. Più di quanto tu possa immaginare».

«Ma... cosa stai dicendo? Non capisco».

«Bella, sono andato dai Volturi perché credevo fossi morta», disse, la voce vellutata, lo sguardo fiero. «Sarei andato in Italia anche se non fossi stato il responsabile della tua morte», pronunciò la parola con un sussulto, «anche se non fosse stata colpa mia. Certo, avrei dovuto agire con più cautela e parlarne prima con Alice, anziché prendere per buona la versione di Rose. Ma, sinceramente, cos’altro avrei potuto pensare, quando il ragazzo mi ha risposto che Charlie era al funerale? Quante probabilità c’erano? Probabilità...», mormorò, distratto. La sua voce era talmente bassa che non ero certa di avere capito. «Le probabilità sono sempre contro di noi. Un errore dopo l’altro. Non criticherò mai più Romeo».

«Continuo a non capire», dissi. «Anch’io ne sono convinta. E allora?».

«E allora cosa?».

«Se anche fossi morta davvero?».

Mi fissò a lungo, dubbioso, prima di rispondere. «Non ricordi cosa ti ho detto una volta?».

«Ricordo tutto quel che mi hai detto». Comprese le parole con cui aveva cancellato tutto.