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Seguì un momento di silenzio profondo. «Voci?», chiese impassibile.

«Be’, una sola. La tua. È una storia lunga». Il suo sguardo inquieto mi fece desiderare di non aver toccato l’argomento. Temeva, come chiunque altro, che fossi pazza? Era vero? Se non altro, svanì quell’espressione che pareva scatenata da qualcosa che gli bruciava dentro.

«Il tempo non ci manca». La sua voce era innaturalmente serena.

«È una storia patetica».

Restò in attesa.

Non sapevo da che parte cominciare. «Ricordi quando Alice ha parlato di sport estremi?».

Rispose con voce neutra. «Ti sei tuffata da uno scoglio per divertimento».

«Ehm, sì. E prima, in moto...».

«Moto?». Conoscevo la sua voce abbastanza bene da sentire qualcosa che ribolliva, nascosto dalla calma.

«Immagino che Alice non ti abbia detto nulla».

«No».

«Be’, il fatto è... ecco, ho scoperto che... ogni volta che facevo qualcosa di pericoloso o stupido... ti ricordavo più chiaramente», confessai, come una pazza da legare. «Ricordavo il suono della tua voce quando ti arrabbi. La sentivo come se fossi al mio fianco. Di norma cercavo di non pensare a te, ma in quelle occasioni speciali non sentivo il dolore: era come se fossi tornato a proteggermi. Perché non volevi che mi facessi male. Ecco, forse riuscivo a sentirti con tanta chiarezza perché, in fondo, sapevo che non avevi mai smesso di amarmi...».

Di nuovo, le mie frasi mi portavano una strana consapevolezza. Sentivo che erano quelle giuste. Una parte nascosta di me riconosceva la verità.

La sua voce sembrava strozzata. «Tu... hai... rischiato la vita... per sentire...».

«Sssh», lo interruppi. «Aspetta un secondo. Sto per avere una rivelazione».

Ripensai alla serata della prima allucinazione, a Port Angeles. All’epoca, le possibilità mi sembravano due: la pazzia, o la necessità di appagare un desiderio. Non c’era una terza opzione.

Eppure...

Eppure, può accadere di credere profondamente a qualcosa senza accorgersi di avere torto marcio? Di essere talmente ostinati e convinti della propria ragione da essere ciechi di fronte alla verità? In quel caso la verità tace o cerca uno spiraglio?

Terza opzione: Edward mi amava. Il legame che ci univa era più forte della distanza, dell’assenza e del tempo. Poco importava che fosse più speciale, bello, brillante o perfetto di me, ormai anche lui era coinvolto e condizionato in modo irreversibile. Era destinato a essere mio per sempre, come io appartenevo a lui.

Cosa stavo cercando di spiegarmi?

«Ah!».

«Bella?».

«Sì. Ecco, ho capito».

«La tua rivelazione?», chiese incerto e nervoso.

«Tu mi ami», dissi meravigliata. La sensazione di certezza e convinzione mi assalì di nuovo.

Malgrado l’ansia nel suo sguardo, sfoderò il sorriso sghembo che tanto adoravo. «È così, davvero».

Il mio cuore si gonfiò a tal punto da rischiare di esplodere. Mi riempì il petto e la gola, mi lasciò senza fiato.

Mi desiderava davvero come desideravo lui: per sempre. Era stato soltanto per non mettere in pericolo la mia anima e la mia esistenza umana che si era ostinato a non volermi trasformare. Di fronte alla possibilità che non mi volesse più, questo ostacolo—la mia anima—sembrava quasi insignificante.

Strinse il mio viso tra le mani fredde e mi baciò fino a darmi le vertigini. Quando avvicinò la fronte alla mia, non ero l’unica ad avere il respiro accelerato.

«Sei stata più brava di me, sai», disse.

«In cosa?».

«A sopravvivere. Tu, se non altro, ci hai provato. Ti alzavi ogni mattina, cercavi di sembrare normale agli occhi di Charlie, seguivi il ritmo della tua vita. Io, quando non cacciavo, ero... totalmente inutile. Non riuscivo a stare vicino alla mia famiglia, né a chiunque altro. Devo ammettere di essermi più o meno raggomitolato su me stesso, per lasciarmi assalire dalla tristezza». Fece un sorriso imbarazzato. «È stato molto più patetico che sentire le voci. E sai che sono sincero».

In cuor mio, ero confortata dal fatto che iniziasse a capirmi davvero e sollevata perché anche per lui aveva senso. In fondo, non mi aveva presa per pazza. Mi guardava come se... mi amasse.

«La voce era una sola», precisai.

Rise, mi cinse i fianchi con un braccio e prendemmo a camminare. «Solo per farti contenta». Fece un ampio gesto verso l’oscurità nella quale procedevamo e che nascondeva qualcosa di immenso e diafano: la casa. «Del loro parere non m’importa nulla».

«La questione riguarda anche loro, ormai».

Scrollò le spalle, indifferente.

Mi guidò oltre la soglia, nel buio della casa, e accese le luci. La stanza era esattamente come la ricordavo: con il piano, i divani bianchi e la scalinata massiccia e chiara. Niente polvere, niente lenzuola sui mobili.

Edward li chiamò come se fossero lì presenti. «Carlisle? Esme? Rosalie? Emmett? Jasper? Alice?». E di sicuro riuscivano a sentirlo.

Carlisle apparve improvvisamente al mio fianco, come se fosse lì da sempre. «Bentornata, Bella». Sorrise. «Come possiamo esserti utili? Immagino che, visto l’orario mattiniero, questa non sia una visita di cortesia».

Annuii. «Ho un discorso da fare a tutti, se per voi va bene, a proposito di una questione importante». Mentre parlavo, non riuscivo a distogliere lo sguardo da Edward. Sembrava critico ma rassegnato. Notai che anche Carlisle guardava Edward.

«Ma certo», rispose. «Perché non ci spostiamo nell’altra stanza?».

Carlisle ci guidò in sala da pranzo, appena dietro il salotto, accendendo le luci a mano a mano. Le pareti erano bianche, i soffitti alti. Al centro della stanza, sotto un lampadario che pendeva basso, c’era un tavolo ovale ampio e lucido, circondato da otto sedie. Carlisle mi indicò di sedermi a capotavola.

Non avevo mai visto i Cullen seduti in sala da pranzo. Era un semplice elemento decorativo, dato che a casa loro non si mangiava.

Non appena mi voltai per sedermi, vidi che non eravamo soli. Esme aveva seguito Edward e dietro di loro c’era il resto della famiglia.

Carlisle si accomodò alla mia destra, Edward a sinistra. Gli altri si sedettero in silenzio. Alice mi sorrideva, già al corrente di tutto. Emmett e Jasper sembravano curiosi, Rosalie azzardò un sorriso. Le risposi con altrettanta timidezza. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo, prima di abituarci.

Carlisle mi fece un cenno del capo. «A te la parola».

Deglutii. I loro sguardi fissi m’innervosivano. Edward mi prese la mano, sotto il tavolo. Gli lanciai un’occhiata, ma lui osservava gli altri, l’espressione improvvisamente tenace.

«Be’... Spero che Alice vi abbia già raccontato cosa è successo a Volterra».

«Tutto», confermò lei.

Le lanciai uno sguardo eloquente. «Anche di cosa ci siamo dette in viaggio?».

«Anche quello», annuì.

«Bene». Sospirai di sollievo. «Allora siamo tutti aggiornati».

Attesero pazienti che finissi di riordinare le idee.

«Il fatto è che ho un problema», dissi. «Alice ha promesso ai Volturi che sarei diventata una di voi. Manderanno qualcuno a controllare e sono certa che sia un pericolo... un’eventualità da evitare. Ecco perché siete tutti coinvolti. Ne sono molto dispiaciuta». Osservai i loro volti bellissimi, uno a uno, lasciandomi per ultimo il migliore. La bocca di Edward era piegata in una smorfia. «Ma se non mi volete, non vi obbligherò ad accettarmi, sia che Alice voglia trasformarmi, sia che non lo faccia».

Esme stava per dire qualcosa, ma la fermai con un dito alzato.

«Vi prego, lasciatemi finire. Sapete tutti cosa voglio. E sono sicura che conosciate anche il parere di Edward. Penso che l’unica maniera onesta di decidere sia di lasciarvi votare. Se decidete di non volermi, allora... penso che tornerò in Italia da sola. Non posso permettere che siano loro a venire qui». A quel pensiero, corrugai la fronte.

Sentii un ringhio crescere nel petto di Edward. Lo ignorai.

«Perciò, partendo dal presupposto che, comunque vada, non vi esporrò ad alcun pericolo, voglio che esprimiate il vostro parere sulla possibilità di trasformarmi in vampira».