«È bene che in città resti qualcuno in grado di combattere, all’evenienza. Mi raccomando, Nihal» disse sorridendo «Salazar è anche un po’ nelle tue mani.»
Soana si fece accompagnare da Fen, e lasciò Nihal triste e contenta al tempo stesso: l’idea della maga e del cavaliere del suo cuore in viaggio insieme non le piaceva neanche un po’, ma essere stata promossa paladina della città la riempiva d’orgoglio.
Il giorno dopo la partenza di Soana, Nihal e Sennar si incontrarono come sempre sul tetto di Salazar.
Avevano preso l’abitudine di andarci a fine giornata, per rilassarsi e godersi il tramonto sulla steppa. Stavano lì a guardare il disco del sole che, da giallo che era, virava lentamente al rosso, tingendo di quel colore sanguigno anche il cielo, fino a scomparire nella vastità verde cupo della pianura. Parlavano del più e del meno, scambiandosi opinioni e chiacchierando di tutto.
Quella sera, però, Nihal sembrava diversa dal solito. Era seria e guardava Sennar di sottecchi. Quando il mago se ne accorse alzò gli occhi al cielo.
«E va bene, Nihal. È partito. Però non mi sembra il caso di…»
Nihal non lo lasciò terminare la frase. «Ti ho mai detto che venivo qui già prima che ci conoscessimo?»
«Be’, non direttamente. Perché?»
«Sennar, c’è una cosa che non ti ho mai detto. Non ne ho mai parlato con nessuno.»
Sennar si fece curioso. «E sarebbe?»
«Ecco, io sento delle voci.»
Per un attimo Sennar rimase in silenzio, poi scoppiò a ridere.
La cosa fece infuriare Nihal. «Guarda che non c’è niente da ridere! Se mi vuoi ascoltare, bene, se no va bene lo stesso e chiudiamo il discorso.»
«No, no, perdonami! È che sentirsi dire “sento le voci”… Comunque dimmi, ti ascolto.»
Nihal gli raccontò tutta la storia: la strana malinconia che da sempre la assaliva quando era da sola, le voci lontane che sembravano chiamarla, le immagini di morte che durante tante notti avevano popolato i suoi sogni. Non sapeva perché sentiva di doverne parlare proprio in quel momento, visto che avevano rappresentato un enigma per tutta la durata della sua breve vita, ma quella sera aveva sperato che forse Sennar avrebbe potuto darle una risposta.
Alla fine del racconto il mago rimase silenzioso per qualche istante, quindi si decise a parlare. «Sono confuso, Nihal. Non so davvero cosa dirti. Forse sei una veggente, e i tuoi sono sogni premonitori. Però non mi sembra si sia avverato niente di quello che mi hai raccontato, quindi… Insomma, non lo so. Forse faresti bene a parlarne con Soana.»
«Sì, ci avevo pensato, solo che…»
Nihal lasciò la frase a metà e guardò un punto lontano della pianura. «Che cos’è?» sussurrò.
Ai margini della steppa si vedeva una piccola linea scura, come un tratto di matita che segnasse il profilo dell’orizzonte. Si stendeva lunga e sinuosa, e lentamente si ispessiva, fino a prendere le proporzioni di una macchia: sembrava inchiostro che si spande su un foglio, un lenzuolo nero che calava a coprire la terra.
Nihal e Sennar continuarono a scrutare l’orizzonte, ma il bagliore del sole al tramonto li accecava. Piano piano crebbe in loro una paura oscura, un timore sordo. Poi capirono.
Un esercito. Un esercito immenso di guerrieri neri come la pece.
I due giovani rimasero attoniti: era l’immagine della fine del mondo, eppure aveva in sé un fascino inspiegabile. Era uno spettacolo bello e terribile insieme: migliaia di formiche si gettavano di corsa verso la città. La tetra distesa era punteggiata dal brillio di centinaia di migliaia di lance puntate contro il sole, e su quella moltitudine di esseri urlanti si levava una figura alata: un enorme drago nero, cavalcato da un uomo interamente coperto da un’armatura bruna. Nel silenzio assorto del tramonto iniziarono a risuonare come un’eco lontana migliaia di grida selvagge che parlavano di morte.
Nihal sentì in sé il riverbero di un ricordo. Fu come se avesse già visto quella scena non una, ma mille volte. Le voci le attraversarono la mente con un fragore di tuono. Si portò le mani alle orecchie con un gemito di dolore.
Quel lamento sembrò riscuotere Sennar. La afferrò per le spalle e la costrinse ad ascoltarlo. «È il Tiranno, Nihal! È il Tiranno che viene a prendersi Salazar! Dobbiamo avvisare la popolazione, dobbiamo dire a tutti di fuggire…»
Nihal lo guardava con gli occhi vuoti. L’eco delle voci rimbombava ancora nella sua testa. Le urla dell’esercito erano sempre più incombenti e vicine.
«Mi hai capito, Nihal? Corri!»
E Nihal corse. Si buttò nella botola che conduceva al tetto e con un balzo si calò giù. Si precipitò per le scale cercando di scacciare dal cuore il gelido terrore che aveva provato poco prima. Urlò con quanto fiato aveva in corpo: «È arrivato il Tiranno! Il suo esercito è alle porte!».
Ma la notizia si era già diffusa perché qualcun altro aveva visto.
Fu il panico. Salazar riecheggiava di voci sgomente, la gente si ammassava per i vicoli e le scalinate. Ovunque non si vedeva altro che disperati che cercavano di scappare. In pochi istanti i corridoi s’erano colmati di gente urlante che si accalcava verso impossibili vie di fuga. Nihal non aveva mai visto le strade della sua città così zeppe, neppure quella volta che il re in persona era giunto in visita. Ma quel caos non era colmo di vita. Sapeva già di morte. Le urla si sovrapponevano, voci di donne, uomini, bambini, un fiume impetuoso che s’infrangeva sulle pareti e travolgeva tutto ciò che incontrava.
Certo, alcuni intimavano la calma. Altri chiamavano a raccolta chi sapeva combattere, provavano a organizzare una resistenza. Ma la verità era che non avevano via di scampo. Non c’era nulla che potessero tentare, né difesa né altro. Darnel aveva messo il suo esercito al servizio del Tiranno anni e anni addietro e gli abitanti di Salazar, rifugiati dalle guerre di altre Terre, uomini fuggiti alle crudezze del combattimento, che cosa potevano fare? Morire con onore, forse, cercando di difendersi? A che pro, se infine si doveva morire?
Per questo ciascuno cercava un’improbabile salvezza nella fuga impossibile: divorata a velocità folle la pianura, l’esercito era già sotto le mura e circondava la città.
Il terrore ormai dominava la torre: donne che urlavano tenendo stretti i loro bambini, uomini che si gettavano dalle finestre nel vuoto, pochi coraggiosi che si facevano largo tra la massa impazzita con le armi in pugno.
Nihal cercò di raggiungere Livon. Bisognava scappare insieme. Lei conosceva tutte le scorciatoie di Salazar, ci aveva giocato per anni da bambina. Avrebbero trovato una via di fuga. Sì, si sarebbero salvati. Non doveva avere paura. Doveva essere fredda. E concentrata.
La bottega non era distante, ma Nihal era in balia della folla. Sentiva le urla dell’esercito sotto le mura, e poco dopo i colpi dell’ariete che cercava di sfondare la porta centrale di Salazar.
Non c’è scampo, si disse, ma scacciò quel pensiero con tutta la forza del suo animo e continuò a procedere, schiacciata da decine di corpi.
Un colpo, un altro colpo.
Ancora pochi metri. Vedo l’insegna. La vedo!
Uno schianto: l’ingresso della città aveva ceduto.
I grossi cardini in ferro si piegarono come steli d’erba.
Il legno millenario della porta si frantumò in enormi schegge.
I soldati del Tiranno invasero Salazar con urla belluine.
Nihal si catapultò nella bottega. «Dobbiamo scappare, Vecchio! Andiamo via, presto!»
Livon aveva già preparato un fagotto di vestiti e stava radunando le sue spade. Guardò fugacemente Nihal e si diresse verso il retrobottega.
«Aspetta, devi coprirti. Ti prendo un mantello.»
«Ma cosa dici? Andiamo via, presto!»
«Non devono vederti, Nihal!»
La ragazza si mise a urlare: «Non c’è tempo, non capisci? Dobbiamo scappare, nasconderci!».
«Sei tu che non capisci! Se ti vedono è finita! Ti uccideranno!»