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La memoria le tornò lenta e parziale. Ricordò di essere scappata da un esercito e di essere stata catturata, ma la stanza dove si trovava non le sembrava una prigione. Cercò di voltare la testa. Vide qualcuno seduto al suo fianco. Si sforzò di guardare meglio per distinguerne il volto, perché aveva la vista annebbiata. Infine lo riconobbe.

«Nihal, sei sveglia!»

Sennar era pallido e affaticato. Avrebbe voluto fargli delle domande, ma dalla gola non le usciva nessun suono.

«Shhh. Sei a casa di Soana, non c’è nulla da temere. Cerca di riposare,

parleremo quando starai meglio.»

Allora Nihal chiuse gli occhi e scivolò in un sonno senza sogni che durò tutto il giorno e la notte.

Quando la mattina dopo aprì gli occhi il sole era già alto. Nihal ne guardò la luce e le sembrò stranamente pallida. Poi capì. Nell’aria c’era un odore acre e il cielo era completamente offuscato da nubi di fumo denso: dopo il saccheggio l’esercito aveva dato Salazar alle fiamme.

Si sentiva ancora molto stanca, ma ricordava tutto.

Livon è morto. Fu il suo primo pensiero. Rivide con precisione tutta la scena. Il corpo che cadeva sul pavimento, quel mostro che ritraeva la spada. Chiuse gli occhi mentre il petto le scoppiava: Livon è morto.

Sennar era ancora accanto a lei. «Come va?»

«Non lo so» rispose Nihal, e si meravigliò di quanto fosse flebile la sua voce.

«La ferita era molto grave. È un miracolo che tu sia ancora viva.»

Nihal si voltò verso l’amico. «Come hai fatto a salvarti?»

«Con la magia, Nihal. Ma è stato difficile.»

Sennar raccontò a Nihal di aver lanciato un incantesimo di invisibilità e di essersi inoltrato tra i vicoli della città. Salazar sembrava un termitaio impazzito, i soldati del Tiranno erano dappertutto: non c’era nulla che potesse fare. Sicuro che Nihal fosse andata da Livon aveva cercato di raggiungerla, ma l’incantesimo gli richiedeva troppe energie. Si era nascosto in una locanda. Lì c’era un soldato. Morto. Lo aveva spogliato, aveva preso la sua armatura e l’aveva indossata.

«Sono arrivato alla fucina troppo tardi. Ho visto Livon, i due fammin… Poi ho visto la breccia nel muro e ho capito tutto. Sono corso sull’argine del fiume. Quando ti ho ripescata non mi sembrava possibile che tu respirassi ancora.» Sennar sorrise all’amica. «È una fortuna che tu sia così piccola, sai? Ti ho avvolta nel mio mantello, ti ho caricata in spalla come un sacco e mi sono diretto verso la casa di Soana. Lungo la strada non abbiamo incontrato nessuno. L’esercito proveniva da est, non aveva neppure sfiorato la zona della Foresta.» Sennar si sfregò gli occhi arrossati dalla stanchezza. «Da quando siamo arrivati ho usato tutti gli incantesimi di guarigione che conosco. Ho trascorso così la notte, sperando che l’esercito bivaccasse a Salazar e non venisse fin qui. Poi è tornata Soana: lei e Fen erano ai confini della Terra del Vento quando hanno visto l’esercito che avanzava. Si sono precipitati indietro, Fen per radunare le sue truppe e venire a difendere la nostra terra, Soana per avvisare la popolazione. Non hanno fatto in tempo, ma questo lo sai anche tu…»

«Quanto tempo sono rimasta incosciente?»

«Tre giorni, Nihal. Tre giorni senza dare segni di ripresa.» Sennar fece una pausa e guardò serio l’amica. «Ho avuto davvero paura che morissi.»

Soana arrivò nel pomeriggio. Sembrava non avere più nulla della bella maga che Nihal ricordava. Gli occhi gonfi tradivano il pianto, il viso e i capelli erano sporchi di fuliggine, l’abito in disordine. Il suo volto era tirato per lo sforzo di mantenere una barriera magica intorno alla casa. In quel modo l’esercito del Tiranno non poteva vederla: se anche dei soldati fossero passati nelle vicinanze, avrebbero scorto solo il folto degli alberi e una forza ignota li avrebbe spinti ad allontanarsi.

Soana si sedette accanto al letto e provò a sorridere. «Come ti senti?»

«Chi sono i mezzelfi?» chiese Nihal con freddezza.

«Se ti riposi forse ti riprenderai presto e…»

Nihal alzò la voce. «Perché quei due mostri mi hanno chiamata mezzelfo?»

Soana fece un respiro profondo. Una lacrima le rigò la guancia sporca di cenere. «Va bene. Hai il diritto di sapere» le disse e iniziò a raccontare: «Sedici anni fa non facevo ancora parte del Consiglio, ero solo l’assistente di uno dei suoi membri più saggi: la maga Reis, del popolo degli gnomi. Eravamo in missione diplomatica nella Terra del Mare e decidemmo di visitare ciò che rimaneva della comunità dei mezzelfi. Quel che trovammo fu orribile…».

C’era sangue ovunque.

Nell’aria il suo odore metallico e un silenzio pesante, assoluto.

Non un filo di vento, non una voce né lo stormire delle foglie degli alberi o il canto lontano di un uccello. Solo l’immobilità della morte.

Soana si era portata una mano alla bocca. «È arrivato fin qui…»

I piccoli pugni di Reis si stringevano attorno alle pieghe della sua lunga veste. Nei suoi occhi lampeggiava l’odio. «Non finirà mai.»

Le due maghe avevano iniziato ad aggirarsi tra i cadaveri sparsi a terra, tra le case di quel villaggio spopolato a colpi di spada. Camminavano intontite, come in un sogno, sforzandosi di vedere cose che i loro occhi volevano sfuggire: ovunque guardassero non c’erano che volti contratti dal dolore, occhi spalancati sul buio, corpi abbandonati pesantemente al suolo.

Poi un suono, tanto debole da sembrare frutto dell’immaginazione.

Soana si era voltata di scatto, quasi fiutando l’aria. Per qualche secondo aveva sentito solo un assordante silenzio. Poi di nuovo quel lieve lamento. Si era messa a frugare tra i cadaveri, voltandoli, cercando.

«Che cosa c’è?» aveva chiesto fredda Reis.

«Una voce! Ci dev’essere qualcuno ancora vivo!»

A mano a mano che si avvicinava alla fonte di quel gemito, il suono si faceva sempre più chiaro. Non era un lamento di dolore. Non era il pianto sommesso e disperato dei sopravvissuti. Era forte e pieno di vita. Il vagito di un bambino.

Sotto il cadavere di una donna Soana aveva visto spuntare un panno che si muoveva debolmente. Aveva voltato il corpo senza vita con delicatezza. Era una giovane, poco più di una ragazzina, colpita alle spalle da un fendente d’ascia.

Tra le sue braccia c’era una bambina molto piccola, una neonata. Strillava con tono veemente, come fanno i bambini quando hanno fame o vogliono essere cambiati. Soana l’aveva sollevata e aveva scostato il panno sporco di sangue che la copriva. La tunica di cui era vestita era immacolata: la bambina era illesa.

Reis si era avvicinata. «È ferita?» Era sempre così diretta, così gelida. Solo quando parlava del Tiranno i suoi occhi prendevano quella luce cupa, terribile.

Soana guardava incredula la bambina: come poteva la vita sorgere così, pura e imperturbabile, dalla morte? «Sembra che stia bene…»

Reis aveva afferrato il braccio di Soana costringendola a chinarsi alla sua altezza e aveva osservato a lungo la bambina. L’espressione dello gnomo era cambiata all’improvviso.

«Vedi qualcosa?» aveva chiesto Soana, titubante.

«Una bambina viva e illesa fra i cadaveri è un segno. Devo consultare le mie carte, solo allora saprò dirti.»

Soana si era rialzata e aveva iniziato a cullare la piccola, sussurrandole parole dolci per calmarla.

Reis si era guardata intorno. «Non abbiamo altro da fare qui. Non è il caso di attardarci: i fammin potrebbero calare da un momento all’altro. Copri la bambina in modo che non si veda. Torniamo al Consiglio.»

Soana aveva obbedito e le due maghe avevano lasciato il villaggio.