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Soana fece una pausa e guardò Nihal, che aveva ascoltato senza dire una parola. «Quella bambina era l’unica sopravvissuta di un intero popolo: l’ultimo mezzelfo del Mondo Emerso. Decidemmo di portarla nella Terra del Vento. Là nessuno avrebbe dato importanza ai suoi tratti…»

Il cuore di Nihal accelerò.

«Aveva grandi occhi viola, orecchie appuntite e capelli blu. Quella bambina eri tu, Nihal.»

Nella stanza calò un silenzio che sembrò infinito.

Soana attese paziente la domanda che prima o poi sarebbe arrivata. La voce della ragazza fu come un soffio.

«Ma allora… Livon…»

«Livon era un uomo eccezionale. Quando ti portai da lui ti accolse senza esitazione e mi giurò che ti avrebbe protetta a costo della vita. Per i primi tempi ti abbiamo cresciuta insieme, ma poi le cose si sono complicate. Reis ha abbandonato il Consiglio. A Salazar la gente ha iniziato a mormorare, ad additarmi come strega. Io sono stata costretta a ritirarmi in questa casa. E Livon ti ha cresciuta da solo. Ti ha amata come una figlia, Nihal. Lo sai.»

Soana allungò la mano a sfiorare la guancia della fanciulla, ma lei spostò la testa con uno scatto rabbioso.

«Perché non mi avete mai detto niente? Perché mi avete tenuta all’oscuro di tutto?»

«Perché volevamo che tu vivessi libera e spensierata il più a lungo possibile. Per sedici anni mi sono illusa che avresti potuto vivere una vita normale. Reis aveva visto qualcosa in te, qualcosa di fondamentale per il futuro di tutto il Mondo Emerso che non ha mai voluto rivelarmi. Ho sperato che si fosse sbagliata, che tu non fossi predestinata a nulla. Ma Reis non si sbagliava mai… Non avrei voluto che tu lo scoprissi in questo modo. Mi dispiace, Nihal.»

Ma Nihal non ascoltava più.

Pensava a Livon, che senza essere suo padre le aveva dedicato la vita fino a sacrificarsi per lei.

Pensava a tutte le volte che aveva fantasticato su sua madre.

Pensava alla sua gente, che non esisteva più.

Pensava allo sterminio di una stirpe intera.

Ecco che cos’erano quelle voci, quei sogni. Erano l’urlo della vendetta che esigeva sangue. E lo esigeva da lei: l’ultima, la sopravvissuta di un popolo, di tutta Salazar e forse anche di se stessa, perché avrebbe preferito mille volte morire insieme a Livon piuttosto che trovarsi lì, in quel letto, annientata dal dolore.

Soana le scostò una ciocca di capelli dalla fronte.

Poi si alzò e si allontanò senza dire nulla.

10

In fuga.

Nihal trascorse i quattro giorni seguenti in completo silenzio. Restò nel suo letto, il dolore al fianco come compagno, a guardare fuori dalla finestra senza dire una parola.

Aveva bisogno di riflettere. Le sembrava di essere stata gettata all’improvviso nell’esistenza di qualcun altro. Fino a quel momento la sua vita era stata svegliarsi, sentire il martello di Livon battere sull’acciaio, vedere la sua schiena curva al lavoro. Andare a conoscere Soana per apprendere la magia e parlare del futuro con Sennar. Impugnare la spada, giocare a fare il guerriero e guardare fiduciosa al domani. In un attimo era cambiato tutto. Aveva ucciso: la spada non era più un gioco. Non avrebbe mai più rivisto Livon, se non nei suoi ricordi come un corpo morto a terra. Ed era colpa sua.

Chi l’aveva distratto per la smania di combattere? Lei. Chi si era comportata come una bambina e aveva considerato un gioco anche la morte? Lei. E non era forse lei un pericolo, ultima rimasta di una razza che il Tiranno aveva cancellato dalla faccia della terra? Non era lei che i fammin volevano uccidere quando erano entrati nella fucina?

Nihal si sentiva portatrice di sventura.

Aveva sempre considerato le stranezze del proprio aspetto scherzi della natura. Invece avevano un significato terribile. I sogni le avevano mostrato quello che era avvenuto con crudezza, come se fosse stata lì, spettatrice dello sterminio di un popolo. Il racconto di Soana lo aveva confermato. Quella strage dimenticata la riguardava da vicino.

Ogni notte di quei quattro giorni le voci del suo popolo trucidato la tormentarono invocando vendetta.

L’ultima notte sognò i volti dei suoi simili: ogni viso le veniva incontro con la sua disperazione, la sua storia, e in quegli sguardi muti Nihal vide l’irreparabilità di ciò che era accaduto. Tra di essi scorse anche quello di Livon. Aveva negli occhi una tristezza profonda e le sussurrava: «Sei tu che mi hai fatto morire, è colpa tua, Nihal…».

Si svegliò in un bagno di sudore, urlando. Sennar le fu subito vicino.

«Un altro incubo?»

Nihal annuì, affannata. «Sono sola, Sennar. Il mio posto non è qui, tra i vivi, ma con la mia stirpe.» Guardò fuori dalla finestra. «Perché sono viva? Perché Livon è morto per me?»

Fino a quel momento Sennar aveva preferito non dirle nulla. Era convinto che Nihal dovesse trovare da sola una via d’uscita. Ricordava ancora i discorsi vuoti che gli avevano fatto i soldati per cercare di consolarlo. Meglio il silenzio. Vedendola in lacrime, però, non poté più tacere.

«Non lo so, Nihal. E non so neppure perché il Tiranno abbia ucciso tutti i mezzelfi. Ma ora sei qui. E devi andare avanti. Per te stessa e per Livon, perché lui ti amava e voleva che tu fossi felice e forte.»

Nihal scosse la testa. «È così difficile… Penso a lui di continuo, a quello che ha fatto per me, e soprattutto a quello che io non ho fatto per lui. E in ogni istante mi dico che è colpa mia. Era bravo con la spada, poteva battere i fammin, poteva farcela. Ma io l’ho distratto, e l’ho ucciso. Sono una stupida… io…»

Nihal cominciò a piangere. Dal giorno della battaglia non aveva versato una sola lacrima. Sennar la strinse a sé, come aveva fatto nella Foresta quella sera, che ormai sembrava lontana secoli.

Il giorno seguente Nihal vide spuntare dall’intelaiatura di legno della finestra un volto piccolo e spaurito. Era Phos. Sennar lo fece entrare, e lui si accomodò sulle lenzuola di Nihal. Ci volle un po’ perché il folletto si decidesse a parlare.

L’esercito del Tiranno, dopo alcuni giorni di scorrerie per la Terra del Vento, era penetrato nella Foresta per fare incetta di legname, aveva scoperto i folletti e si era lanciato alla loro caccia. Era stato terribile. Tanti erano stati catturati, molti altri uccisi.

Phos aveva radunato quanti più folletti poteva e li aveva portati verso l’unico rifugio sicuro: il Padre della Foresta. Non appena i fammin si erano mossi verso il grande albero, il Padre della Foresta li aveva difesi. Con i suoi rami aveva agguantato per la gola quattro o cinque di quegli orrendi mostri e li aveva strangolati. Gli altri si erano dati alla fuga. Phos e i suoi compagni erano rimasti nascosti per giorni, finché non avevano più sentito le grida dei fammin e dei soldati. Quando erano usciti allo scoperto, la Foresta era semidistrutta. Della loro numerosa comunità non era rimasta nemmeno la metà.

«Poi ho incontrato Sennar. Mi ha raccontato tutto. Allora ho deciso di venire da te. Ho pensato che magari, se avessimo pianto insieme, saremmo stati meglio.»

Il folletto cominciò a singhiozzare. Nihal lo prese tra le mani e lo portò a contatto della sua guancia.

«Coraggio. Migrerete e troverete una nuova terra dove vivere.»

«Non capisci. Non possiamo muoverci. Se ci vedono ci cattureranno, sarà la fine.»

Sennar, che aveva ascoltato tutto, intervenne: «Ascolta, Phos. Noi tra poco dovremo partire: Soana è sfinita, non può mantenere la barriera ancora a lungo, e anche io sono esausto. Andremo nella Terra dell’Acqua, dove Nihal sarà al sicuro. Verrete con noi, vi nasconderemo. Là ci sono tanti folletti: vi rifarete una vita».

Phos si alzò in volo dal letto e cinse il collo di Sennar con le sue braccine. «Grazie, grazie… Cosa posso fare per sdebitarmi con voi?»

«Ci servono dei cavalli. E dell’ambrosia per il viaggio» rispose Nihal. «Altrimenti ho paura che sarete costretti a lasciarmi per strada.» La ragazza cominciava a ritrovare la sua presenza di spirito.