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Iniziarono a organizzare la partenza. Fu deciso che Sennar indossasse l’armatura che aveva rubato il giorno dell’invasione, così da non destare sospetti, e che il gruppo avrebbe seguito un sentiero nascosto indicato da Phos. Restava solo da stabilire la data.

Nihal non si era ancora alzata: prima di affrontare il cammino doveva almeno rimettersi i piedi. All’inizio fu difficile. Le girava la testa e le sembrava che le gambe non la reggessero, ma si sforzava senza mai lamentarsi. Sennar aveva ragione: bisognava andarsene. Se fossero morti lì niente avrebbe avuto più senso. I sopravvissuti hanno più responsabilità degli altri.

Partirono di notte sotto una piccola falce di luna.

Il buio era quasi totale. Sennar indossava l’armatura, Nihal era avvolta in un mantello nero, Soana portava una cappa di iuta.

A un tratto il buio si illuminò di luci fioche: erano i folletti. Nihal si stupì di quanto pochi fossero: qualche decina, tutti male in arnese, con gli occhi cerchiati e lo sguardo da profughi.

«Ho trovato solo questo, gli altri se li sono presi i fammin» fece Phos indicando un ronzino magro e spaventato. Sennar si girò faticosamente a guardare. Era davvero buffo sotto quella corazza e Nihal si chiedeva come facesse a sopportarne il peso.

«Andrà più che bene. Grazie, Phos.»

I folletti si nascosero dentro due sacchi fissati alla soma del cavallo, dopodiché Nihal montò in sella. La ferita, sebbene quasi rimarginata, era ancora dolorante. Al diavolo! Non siamo nemmeno partiti e già sto male. Bevve un sorso d’ambrosia.

La carovana si mise in movimento.

Iniziarono a costeggiare la Foresta: nascosto sotto il mantello di Nihal, Phos faceva da guida. La notte era fonda, il silenzio assoluto. Neppure gli alberi frusciavano. Tacevano in segno di lutto, e Nihal sentì che il dolore pervadeva la natura.

Camminarono tutta la notte. Sennar apriva la colonna, Soana e Nihal lo seguivano affiancate. Di tanto in tanto dai sacchi uscivano mormorii ed emergeva una testolina colorata. Nei sacchi non si respirava: a turno i folletti si affacciavano per prendere aria.

Soana camminava a fatica, perché in quei giorni non aveva fatto altro che recitare incantesimi, e per Nihal il trotto del cavallo era un supplizio.

Alle prime luci dell’alba si inoltrarono nel folto: avevano deciso che era più sicuro viaggiare di notte e riposare di giorno. Fecero dei turni di guardia, per evitare di essere sorpresi nel sonno. Si svegliarono che era il tramonto e si rimisero in marcia.

Giunsero in vista del Saar solo la notte seguente. Il Grande Fiume era un’immensa distesa d’acqua di cui non si vedeva l’altra sponda. La corrente scorreva con un fragore di tuono. Pochi ardimentosi avevano osato attraversarlo e quasi nessuno ne era uscito incolume: sembrava un essere oscuro e maligno pronto a divorare tra i suoi flutti chiunque avesse tentato di affrontarlo.

Le rive erano totalmente prive di vegetazione: nessun’altra forma di vita osava arrischiarsi là dove il Signore delle Acque aveva il suo regno. Era lo stesso fiume da cui nascevano gli splendidi canali della Terra dell’Acqua, ma in quel luogo mostrava il suo volto più arcigno.

Phos fu perentorio: «Qui siamo allo scoperto, dobbiamo procedere più velocemente. Se andiamo rapidi, possiamo superare la zona brulla della Terra del Vento in una notte».

Il gruppo si predispose a una marcia serrata.

Dopo un lungo tratto di cammino comparve un bagliore: era stata incendiata una torre. Tra le fiamme s’intravedeva la sua sagoma nera. Era una torre come Salazar, e come questa era vittima della follia del Tiranno.

Affrettarono il passo con la morte nel cuore. Una città in fiamme significava nemici vicini, ma la zona brulla sembrava non finire mai: le prime luci dell’alba già coloravano debolmente la pianura.

Erano stremati. Bisognava trovare un riparo, ma sembrava che non ci fosse nulla per miglia e miglia. Poi, quando il sole si era già levato sopra l’orizzonte, scorsero un casale.

Sennar andò in avanscoperta. Quando tornò era scuro in volto.

«Non è il caso di fermarsi. Procediamo.»

Nihal spronò il cavallo all’improvviso.

«No, Nihal. Torna indietro!»

Ma la ragazza galoppava verso la casa, ignorando le urla di Sennar.

Il panorama era desolante: attrezzi abbandonati, un orto incolto, una stalla vuota. Nihal smontò a fatica e si avvicinò alla porta d’ingresso. Era socchiusa e quando la spinse cigolò sui cardini.

Dentro era buio. C’era odore di morte. Un uomo penzolava dal soffitto, mentre una ragazzina e una donna giacevano a terra nel proprio sangue.

Nihal rimase pietrificata: le sembrò che la penombra si popolasse dei volti dei suoi sogni e ricominciò a sentire urla e lamenti. Era la storia che si ripeteva, erano le stragi che si susseguivano. Gridò, cadde in ginocchio.

«Vieni via. Non guardare.»

Soana l’aveva raggiunta.

«E invece bisogna guardare! Bisogna scolpirsi nella mente quello che il Tiranno sta facendo al nostro mondo!» urlò Nihal con rabbia.

La maga la prese per un braccio e la trascinò fuori.

Seppellirono i cadaveri avendo cura che le tracce delle fosse non fossero visibili, poi si apprestarono a dormire nel granaio della casa. Prendere sonno non fu facile per nessuno: le immagini di morte li perseguitavano.

Nonostante le proteste di Sennar, Nihal decise di fare anche lei un turno di guardia. Prese la sua spada e si mise a sedere sulla soglia. Guardando la desolazione dei campi su cui quella famiglia aveva speso giorni di fatica si sentì soffocare.

La giornata trascorse tranquilla.

Verso il tramonto Nihal riuscì a prendere sonno, abbracciata alla sua spada, e per la prima volta da quando aveva scoperto di essere un mezzelfo non ebbe incubi. Sognò invece che Fen arrivava per portarla via. Poi, davanti alla cascata della reggia di Astrea e Galla, le dava un lunghissimo bacio.

È tutto finito, Nihal, ora ci sono io, le diceva.

Al risveglio si domandò come avesse potuto fare un sogno tanto bello in un momento così drammatico. Non aveva più pensato al cavaliere, ma si accorse che quell’amore non era svanito. Chissà dov’era, per chi combatteva, se stava bene…

Il viaggio riprese. Avevano raggiunto una macchia e la copertura degli alberi dava sicurezza alla compagnia. Alcuni folletti uscirono a sgranchirsi le ali stropicciate.

Phos gioì nel vedere che quel piccolo bosco non presentava segni del passaggio dei fammin. «Forse si può sperare! Non tutto è distrutto!»

Sennar si tolse l’elmo e respirò a pieni polmoni l’aria fresca.

«Nihal, qui nessuno ti può vedere. Togliti il mantello.»

La ragazza scosse la testa. «No. Non voglio farvi correre rischi.»

Pallida, magra, vestita di nero, Nihal sembrava una figura diabolica. Per un istante Sennar ne ebbe paura. Non era più la ragazzina che aveva conosciuto a Salazar. Era cambiata, ma ancora non sapeva dire come.

Anche quella notte passò senza problemi. Si fermarono a riposarsi poco prima dell’alba. Dopo l’esperienza del giorno precedente, poter dormire sull’erba fu stupendo.

Nihal decise di fare il primo turno di guardia. Ne approfittò per camminare un po’: voleva rimettersi il più in fretta possibile. Guardò il paesaggio intorno a sé, stupita di quell’angolo di paradiso in mezzo alla desolazione della guerra. Ricordò i giorni della prova nella Foresta: le parvero appartenere a un’altra vita.

Uno scricchiolio la distolse dai suoi pensieri. Si voltò di scatto: Soana. Dal giorno della rivelazione non le aveva più parlato.

«Ti senti meglio?» La maga era tornata quella di sempre, bella e potente.

«Sì, va meglio.»

«Non riesci a perdonarmi, vero?» Soana andava dritta al punto.

Nihal rispose secca e sincera. «No.»

Non voleva ferirla, ma doveva liberarsi di quel groppo di risentimento che le stringeva la gola.

«È giusto così. So come ti senti, so che la morte di Livon è qualcosa che non si potrà mai riparare, ma vorrei che tu sapessi che in questo dolore ti sono compagna. Livon era mio fratello, Nihal.»