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«Sei proprio una maledetta! È solo che a volte penso che una madre ti ci sarebbe voluta…»

«Non è colpa tua se la mamma è morta» fece Nihal con semplicità.

«No» disse Livon arrossendo «no.»

Sulla moglie di Livon aleggiava il più oscuro mistero. Nihal s’era accorta presto che tutti a Salazar avevano un papà e una mamma e lei invece solo il papà.

Ancora molto piccola, aveva iniziato a fare domande a cui Livon aveva sempre dato risposte vaghe e confuse. La mamma era morta, non era dato di sapere come né quando. Ma com’era? Bella. Sì, ma come? Come te, occhi viola e capelli blu. Ogni volta che si tirava fuori l’argomento, Livon andava in crisi e Nihal aveva imparato, con il tempo, a evitare il discorso.

«Mi hai sempre detto che volevi che diventassi una persona forte, che seguissi i miei desideri… Io cerco di farlo.»

Con sua figlia Livon aveva il cuore tenero: a quelle parole gli vennero le lacrime agli occhi.

«Vieni qui» disse, e la abbracciò tanto stretta da farle male.

«Mi soffochi, Vecchio…»

Nihal provò a divincolarsi, ma in realtà godeva di quell’abbraccio più di quanto non volesse mostrare.

Nel pomeriggio si dettero alla solita occupazione: forgiare armi.

Livon non era solo il miglior armaiolo del mondo noto e probabilmente anche di quello ignoto: era un artista. Le sue spade erano armi incredibili, di una bellezza così fulgida da mozzare il fiato, armi che sapevano adattarsi al proprietario ed esaltarne le capacità.

Realizzava lance appuntite come aculei e taglienti come rasoi, ornate di fregi sinuosi che non ne appesantivano la linea come inutili orpelli, bensì ne esaltavano il disegno. Livon era in grado di sposare il massimo della funzionalità con lo splendore dell’eleganza. Trattava le armi come figli, le considerava sue creature e come tali le amava. Adorava quel lavoro perché gli permetteva di esprimere il suo estro creativo, che sembrava inesauribile, e al contempo lo esaltava mettere alla prova le sue capacità tecniche.

Ogni nuova arma era una sfida alla sua perizia di artigiano, e così di volta in volta tentava arditi esperimenti, utilizzava nuovi materiali, cercava forme sempre più complesse e le mescolava con soluzioni tecniche sempre più complicate.

La fama di Livon era così vasta che il lavoro non mancava mai, e da sempre, un po’ per necessità un po’ per puro piacere, si faceva aiutare da Nihal. E mentre lei gli porgeva il maglio o azionava il mantice, lui le regalava perle della saggezza dei guerrieri.

«Un’arma non è solo un oggetto: per un guerriero la spada è come un arto, una compagna fedele e inseparabile. È la sua spada, e non la cambierebbe con nessun’altra al mondo. E per un armaiolo è come un figlio: come la natura dà vita alle creature di questo mondo, così l’armaiolo dal fuoco e dal ferro forgia la lama» diceva Livon e chiudeva la frase con una fragorosa risata.

Non c’era dunque da meravigliarsi che, con un padre che viveva per le spade e che aveva tra i suoi avventori soldati, cavalieri e avventurieri, Nihal fosse cresciuta così ribelle e poco femminile.

Erano impegnati con una spada quando Nihal tirò fuori una questione annosa. «Vecchio?»

«Mmm…»

Livon abbatté il maglio sulla lama.

«Volevo chiederti…»

Un altro colpo.

Nihal assunse un’aria innocente e svagata. «Quand’è che mi dai una spada vera?»

Il maglio di Livon restò fermo a mezz’aria. Un sospiro, poi l’omone riprese a battere l’acciaio. «Tieni ferma quella pinza.»

«Non cambiare argomento» insistette Nihal.

«Sei troppo piccola.»

«Ah, sì? Però non sono troppo piccola per cercarmi marito!»

Livon posò il maglio e si lasciò cadere su una sedia, rassegnato. «Nihal, ne abbiamo già parlato. Una spada non è un giocattolo.»

«Questo lo so benissimo, e so anche come si usa, molto meglio di tutti i ragazzi di questa città!»

Livon sospirò. Aveva pensato spesso di regalare a Nihal una delle sue spade, ma poi il timore che potesse farsi del male l’aveva sempre frenato. D’altro canto, si rendeva conto che con la sua spada di legno Nihal faceva prodigi e che più di una volta aveva preso in mano spade vere, dimostrando di conoscerne bene sia i rischi sia le potenzialità.

Nihal s’accorse dell’indecisione del padre e ripartì alla carica. «Allora, Vecchio? Eh?»

Livon si guardò attorno. «Vediamo» disse sibillino. Si alzò e andò verso gli scaffali su cui teneva i suoi lavori meglio riusciti, quelli che realizzava senza alcuna commissione, solo per se stesso. Prese un pugnale e lo mostrò a Nihal. «Questo l’ho fatto un paio di mesi fa…»

Era un’arma molto bella: l’impugnatura era forgiata a formare un tronco d’albero, con le radici a un estremo e due rami contorti che sporgevano da quello opposto allargandosi verso l’esterno. Le altre frasche si avvinghiavano ancora per un piccolo tratto, fino a fondersi nella lama.

Gli occhi di Nihal brillarono. «È mio?»

«È tuo se mi batti. Ma se vinco io cucini e rassetti tu per un mese.»

«Ci sto! Ma tu sei grande e grosso, mentre io sono ancora una bambina, no? Lo dici sempre anche tu! Quindi per pareggiare i conti dovrai restare nello spazio di tre assi del pavimento.»

Livon ridacchiò. «Mi sembra legittimo.»

«Dammi una spada, allora» disse Nihal, già eccitata di poter mettere le mani sull’acciaio.

«Non se ne parla neanche! Userò il legno anch’io.»

Si misero entrambi al centro della sala, Nihal con la sua spada di legno in pugno e Livon con un bastone.

«Pronta?»

«Naturalmente!»

La sfida ebbe inizio.

Nihal non era dotata di grande resistenza, e la sua tecnica era tutt’altro che impeccabile, ma sopperiva alle lacune con l’intuito e la fantasia. Parava e scartava ogni assalto, sceglieva i tempi giusti per l’attacco e saltava a destra e a manca con grande agilità. Il suo vantaggio era tutto lì, e lei lo sapeva.

Improvvisamente Livon si sentì fiero di quel maschiaccio con le trecce blu. L’asta di legno gli sfuggì di mano, andando a cozzare su un gruppo di lance appoggiate in un angolo.

Nihal gli puntò la sua arma alla gola. «Che fai, Vecchio, mi cadi sui fondamentali? Farsi disarmare così da una ragazzina…»

Livon scostò la spada di legno, prese il pugnale e lo porse alla figlia. «Tieni, te lo sei meritato.»

Nihal si rigirò a lungo il pugnale tra le mani, soppesandolo e provandone il filo sul dito, dissimulando che era pazza di gioia. La sua prima arma!

«Però ricordati: mai fare i gradassi con il nemico battuto. È di pessimo gusto.»

Nihal guardò il padre con occhi furbi. «Grazie, Vecchio.»

Era già abbastanza smaliziata da capire quando la lasciavano vincere.

2

Sennar.

Fin da piccola Nihal aveva bazzicato la banda di ragazzini con cui andava in giro per Salazar a combinare danni d’ogni sorta. E se all’inizio era stata accolta con una certa diffidenza, sia perché era femmina sia per il suo strano aspetto, le era bastato poco per farsi accettare.

Un paio di duelli e aveva provato che quanto a esuberanza, sebbene fosse una ragazzina, non aveva nulla da invidiare agli altri membri della combriccola.

Da quando entrò nel gruppo fu via via più benvoluta. Poi batté Barod, il capo, in uno scontro con la spada: da quel momento venne addirittura idolatrata e diventò lei il capo della banda.

Nonostante la compagnia non le mancasse, a volte, però, Nihal si sentiva sola. Allora saliva sulla cima di Salazar e guardava il panorama dall’ampia terrazza che dava sulla steppa: l’occhio poteva spaziare senza limite per la pianura, e le uniche cose che si intravedevano erano l’onnipresente Rocca del Tiranno e le sagome sbiadite delle altre città.

Davanti a quello spettacolo Nihal si calmava e per un attimo la sua indole guerriera taceva. Era strano: quando il tramonto incendiava, in un unico rogo, cielo e steppa riusciva a non pensare a nulla. Sentiva solo un mormorio provenirle dal fondo dell’anima, come un bisbiglio in una lingua che non conosceva.