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Attraverso un altro dedalo di corridoi giunsero in un’arena scoperta.

«Qui gli allievi più anziani prendono confidenza con i loro draghi. Forse questo posto non lo vedrai mai.» Lahar fece una risatina sarcastica.

Nihal non riuscì a trattenersi. «E come mai, di grazia?»

«Non rivolgerti a me con quel tono! Dopo il primo addestramento gli allievi devono provare di aver ben appreso combattendo la loro prima battaglia da fanti. E ti assicuro che i fammin non fanno alcuna distinzione tra ragazzine e uomini.»

«Conosco i fammin. Ne ho ucc…»

«Silenzio! Abituati a parlare solo quando sei interrogata!»

Visitarono poi il refettorio, dove erano disposte in ordine perfetto decine di banchi, quindi raggiunsero una lunga infilata di stanzoni, ciascuno con una ventina di letti. Il dormitorio era spartano: ogni branda aveva accanto un rozzo tavolino dove l’allievo poteva appoggiare i propri effetti personali. Quello era tutto l’arredamento.

Lahar accompagnò Nihal fino a uno stanzino buio e puzzolente di muffa. Per terra c’era un po’ di paglia a mo’ di giaciglio. Una feritoia faceva filtrare una lama di luce.

«Tu dormirai qui, visto che sei una donna.»

Nihal guardò l’insieme con un misto di disgusto e scoramento. «Non c’è aria…»

«Ti aspettavi una reggia? All’Accademia si viene per imparare a combattere, non in villeggiatura. Ora ascolta bene, perché non ho intenzione di ripetere. Ogni mattina ci si leva al sorgere del sole e si fanno le esercitazioni con le armi. Dopo il pranzo, che avviene a mezzogiorno in punto, si studiano teoria e strategia. La cena è al tramonto. Terminata la cena ci si ritira. Dopo il calare del sole non è permesso circolare per l’Accademia. Ti è concesso un giorno di riposo al mese. Finché non avrai finito il tuo primo addestramento devi indossare l’abito degli allievi. Poi sarai affidata a un Cavaliere di Drago. Le regole che dovrai seguire allora saranno quelle dettate dal tuo maestro. Questo è quanto. Fino a domani mattina non hai impegni, ma ti consiglio di startene buona qui. Buon soggiorno.»

Lahar fece per andarsene.

«Ah, dimenticavo. Agli allievi non è permesso possedere armi. Dammi la spada.»

La ragazza strinse la presa sull’elsa. «Sono sicura che per me farai uno strappo alla regola.»

«Per una sgualdrinella mezzosangue? E perché mai?»

Un attimo dopo Nihal puntava la punta di cristallo nero alla gola di Lahar. «Forse non ti hanno informato: mi sono guadagnata l’ingresso in Accademia battendo i dieci migliori allievi… e il mio diritto a vivere uccidendo due fammin nella Terra del Vento.»

L’uomo iniziò a sudare. Conosceva bene tutta la storia. La guardò con odio, sputò per terra e se ne andò sbattendo la porta.

Nihal rinfoderò la spada. Le mancava l’aria.

Provò ad affacciarsi, ma dalla feritoia non si intravedeva che uno spicchio caotico di Makrat.

Si gettò sul mucchio di paglia e guardò il soffitto.

Cercò di fantasticare sulle sue future avventure di guerriero, ma il tentativo fu misero.

Allora pensò a Livon, e toccò il fondo della disperazione.

Si svegliò all’improvviso, destata da un clamore inatteso. Non pensava di essersi addormentata. I rumori venivano dalle camerate.

Nihal si stava alzando quando vide l’uscio dello stanzino socchiudersi lentamente.

Era molto buio, perché nel frattempo era giunto il tramonto. Quando la porta fu aperta, Nihal distinse una sagoma tozza che avanzava zoppicando.

«Chi è?» domandò allarmata.

La figura si arrestò. «Niente di male, niente di male. Qui buio, vuoi luce magari. Io entra, porta luce. Lahar mi ha detto. Non temere, non temere.»

L’essere aveva una voce stridula e lamentosa. Si fece avanti e iniziò ad accarezzarle un braccio.

Nihal scattò in piedi. «Cosa vuoi da me?»

«Niente di male, porta luce per te, così vedi. Chiama per cena, anche.»

Finalmente Nihal lo vide.

Non aveva nulla di umano: era basso e grasso, la testa completamente calva, una gamba di legno. Nel suo corpo non c’era niente di simmetrico. Faceva l’impressione di una bambola di pezza vecchia e rotta. Sul volto si alternavano malizia e servilismo. Aveva in mano una torcia.

«Niente di male, niente di male…»

«Ho capito, piantala! Chi sei?»

«Malerba, servo qui. Niente di male, non temere…» e già allungava di nuovo la mano.

Nihal si ritrasse inorridita: il contatto con quell’essere la disgustava. «Grazie per la luce. Non mi serve più niente. Vattene.»

Malerba fece una faccia contrita e si ritirò camminando all’indietro come un gambero, senza smettere di guardarla.

Nihal appese la torcia al muro. La luce la calmò. Quell’apparizione l’aveva inquietata: le sembrava di avere ancora gli occhietti di quell’essere deforme appiccicati addosso. Decise di andare in refettorio per scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione.

La sala della mensa era piena di ragazzi vocianti seduti ai tavoli.

La vista di suoi coetanei rallegrò un poco Nihal e le fece pensare che in fondo non era davvero sola. Si avviò verso i tavoli, alla ricerca di un posto vuoto.

Alla sua vista la sala ammutolì.

Nihal rallentò il passo. Non capiva.

Molti occhi erano puntati su di lei: occhi stupiti, spaventati, minacciosi, diffidenti. Non le era mai capitato di sentirsi scrutata in quel modo.

Si avvicinò a un posto vuoto. Il ragazzo che sedeva accanto vi pose subito la mano sopra. «È occupato.»

Nihal cercò altrove, ma ovunque andasse la risposta era la stessa: “occupato”.

Poi, nel silenzio del refettorio, tuonò una voce: «Perché sei vestita così, mezzelfo?».

Nihal si guardò intorno. Su una pedana, appartati rispetto ai ragazzi, sedevano i maestri.

«Come dovrei essere vestita?»

«Sei un allievo, o almeno così dicono» disse con un sorriso acido l’uomo che parlava «dunque devi portare i vestiti degli allievi.»

In quell’immensa sala, circondata dall’ostilità, Nihal sentì di aver perso tutta la sua forza. «Nessuno me li ha dati…» si scusò.

«Allora non dovevi scendere. Lahar non ti ha spiegato le regole?»

«Sì, ma io…»

«Rimedierai alla tua mancanza con un turno di guardia fino all’alba. Per quel che riguarda i vestiti, te li porterà più tardi Malerba.»

Qualcuno tra i ragazzi rise.

«Ora siediti e mangia.»

Anche i ragazzi ripresero a mangiare.

Nihal si avviò verso l’ultimo posto che le sembrava disponibile. Non ebbe neppure il tempo di chiedere.

«Niente mostri né femminucce» le disse truce un ragazzetto.

Nihal si allontanò. Che cosa significava quell’uscita? Il Mondo Emerso era pieno di razze: ninfe, folletti, gnomi, uomini. Che cosa voleva dire che non c’era posto per i mostri?

Cresciuta in una terra meticcia, a Nihal non era mai pesato il fatto di essere diversa. Ma lì, tra l’elite degli uomini, sembrava uno scherzo di natura.

Si sedette in un posto isolato, lontano da tutti, e mangiò in silenzio, il cuore pieno di amarezza.

Dopo cena tornò nel suo bugigattolo in fretta, cercando di non farsi notare troppo. Sulla soglia l’attendeva Malerba, un fagotto informe in mano, il suo sorriso ebete in faccia.

Nihal prese i vestiti senza guardarlo, ma quello già stava per varcare la soglia.

«Puoi andare» scattò Nihal.

Il servo fece di nuovo una faccia mortificata e si allontanò.

Nihal si chiuse dentro. Sapere che fuori c’era quell’essere ad attenderla la faceva impazzire. Incastrò con furia la spada di traverso nella chiusura della porta in modo che nessuno potesse entrare, che fosse Malerba o uno di quei boriosi allievi che l’avevano umiliata.

Fu sola. La luce della fiaccola tremolava pallida, e stagliava più netti i contorni di quello stanzino, che ora sembrava davvero una cella.

Prese i vestiti: erano composti da un paio di brache e da una larga casacca di tela. Li buttò in un angolo e si distese sulla paglia con i suoi abiti. Oltre la porta sentiva il vociare degli altri allievi inframmezzato da risate. Lei ne era esclusa.