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Nihal sospirò. In pochi istanti aveva visto la porta della sua prigione aprirsi di uno spiraglio e poi subito richiudersi.

«Quell’uomo mi odia…»

«Non devi parlare così del Supremo Generale. Tu non l’hai conosciuto quando combatteva. Era un guerriero straordinario. Ora si è infiacchito nel comando ma, credimi, nel profondo è ancora un valoroso. Sa riconoscere un guerriero. Non appena gli proverai quanto vali in battaglia, cambierà idea. Perché la guerra è tutt’altra cosa da quel che si fa qui dentro.»

Quando Parsel le propose di addestrarla all’uso della lancia fuori dall’orario delle lezioni, Nihal si sentì come liberata da una lunga prigionia. Combattevano quasi ogni sera, e lei poteva finalmente utilizzare al massimo la sua abilità. L’uso della lancia, poi, la entusiasmò: imparò a combattere corpo a corpo e a portare assalti da cavallo. Tutte quelle novità la facevano sentire di nuovo viva.

Parsel, da parte sua, aveva preso a cuore il destino di quella ragazza: la apprezzava per la sua incrollabile dedizione e per la tenacia, ed era sempre più stupito del suo talento.

Intuiva però in lei una profonda tristezza, insolita in una persona tanto giovane. Proprio lui, che non aveva mai avuto affetti o famiglia perché si era sempre dedicato solo alla guerra, sentiva per quella ragazzina un senso di protezione quasi paterno.

I due giunsero a una strana intimità.

L’unica forma di comunicazione che li legava era il combattimento.

Parlavano con le armi: Nihal era chiusa, schiva, e l’unico modo in cui permetteva ai suoi sentimenti di emergere era lo scontro.

Il maestro aveva imparato a leggere nei movimenti dell’allieva i suoi stati d’animo e le rispondeva, cercando di incrinare la barriera di risentimento che Nihal aveva eretto intorno a sé.

Non furono mai propriamente amici. Solo una volta Nihal gli fece una confidenza: una sera gli raccontò di Malerba, del timore che provava per lui, dell’episodio avvenuto nella sua stanza.

Parsel la ascoltò, poi scosse il capo. «Non dovresti odiarlo, sai? Ha alle spalle una storia terribile.»

Nihal si fece attenta.

«È uno gnomo, non sappiamo da quale Terra provenga. Lo trovammo alcuni anni fa a languire in prigione: all’epoca eravamo riusciti a conquistare un importante avamposto del Tiranno nella Terra dei Giorni. Era ferito ovunque, e portava sulla pelle i segni della tortura. Nella stessa segreta giacevano altri suoi simili, maschi e femmine, tutti in fin di vita. Li portammo via con la speranza di poterli salvare, ma non ci fu nulla da fare. Lui fu l’unico sopravvissuto. La dedizione con cui accudiva i suoi compagni di cella e il dolore che gli provocò la loro morte ci fecero pensare che fossero i suoi familiari. Per qualche tempo Malerba fu un mistero: che cosa faceva là sotto, e perché era stato torturato in modo così atroce? Non conoscevamo ancora gli abissi di orrore in cui il Tiranno trascina i popoli che sottomette. In seguito, quando ci trovammo di fronte a molti casi analoghi, capimmo. I fammin non sono una razza, come dire, naturale. Sono creature del Tiranno: li ha plasmati con la sua magia, e ora vuole perfezionare altri esseri che lo servano a occhi chiusi. Per questo fa esperimenti sui prigionieri. Malerba ne è la prova vivente: il suo corpo martoriato è frutto dei tentativi del Tiranno di trasformare gli gnomi in guerrieri perfetti. Non sappiamo quanti siano gli esseri coinvolti, né quanti siano già morti. Potrebbero essere popoli interi.»

Nihal ebbe un brivido.

«È probabile che Malerba ti abbia preso, come dire, in simpatia, o che tu gli ricordi qualcuno. Nella cella c’era anche una giovane. Chissà, forse era sua figlia… Non vuole farti del male, cerca di trattarlo con tolleranza. Ha già dovuto subire molto dalla vita.»

Nihal non riuscì ad avere meno paura di Malerba, ma lo guardò con altri occhi. Si sforzò di reprimere il suo ribrezzo e cercò di trattarlo con gentilezza, ringraziandolo per i suoi servigi e rispondendo ai suoi sorrisi ripugnanti, in cui riusciva a intravedere il fioco lume della riconoscenza. In un certo senso erano simili: due diversi odiati, temuti e profondamente soli.

Cinque mesi dopo il suo arrivo nell’Accademia, Nihal fu convocata da Raven. Si recò nel salone delle udienze pronta alla solita snervante attesa, ma il Supremo Generale era già sul suo scanno.

«Mi hanno riferito che sei brava e che progredisci alla svelta, ragazza.»

Nihal non credeva alle proprie orecchie.

«Il tuo maestro mi ha chiesto ripetutamente di lasciarti iniziare la fase più avanzata dell’addestramento. Ebbene, credo che il momento sia giunto: potrai apprendere l’uso delle altre armi. Puoi andare.»

Poi Raven abbandonò la sala, trascinandosi dietro il lungo strascico del mantello e lasciando Nihal incredula. E felice.

Nel nuovo gruppo si sentì subito a suo agio.

I compagni erano arroganti come i precedenti, ma finalmente non era più costretta a combattere con metà delle sue capacità. E poi, da quando si era allenata con Parsel all’uso della lancia, era incuriosita dalle altre armi. Le ore di addestramento volavano e Nihal era stimolata da tutte quelle novità.

Imparò i modi in cui un pugnale può tornare utile in un corpo a corpo, capì fino in fondo le potenzialità della lancia e, sebbene fosse minuta, si misurò anche con la mazza ferrata e l’ascia.

Con la prima non si trovò particolarmente bene. L’attrezzo pesava molto: le riusciva difficile già solo alzarlo, figurarsi sferrare colpi mirati. L’ascia invece le piaceva molto, per certi versi le ricordava la spada: era un’arma potente e semplice, adatta a sfogare la sua rabbia.

Le misero in mano anche la frusta, con la quale il famigerato Thoren l’aveva quasi uccisa, e si accorse di quanto fosse difficile da maneggiare.

Infine prese dimestichezza con l’arco.

L’approccio non fu dei migliori: della battaglia Nihal amava la furia, il corpo a corpo, il sudore e la fatica. L’arco richiedeva invece concentrazione e sangue freddo, due doti che non le appartenevano.

«Proprio per questo devi imparare a usarlo» le diceva il maestro quando la ragazza si spazientiva.

Dopo le iniziali difficoltà, però, Nihal prese confidenza con quell’arma insolita. La forza non era fondamentale per usarla e, superata la frustrazione per i bersagli mancati, prese a darle grandi soddisfazioni. Scoprì di avere ottima mira, un dono che pochi altri condividevano nel suo gruppo, e si impratichì nel tirare anche in movimento.

La sua arma prediletta, comunque, restava la spada. Non c’era nulla in cui eccellesse come nella scherma, e solo quando impugnava la sua lama nera si sentiva davvero a suo agio.

Nihal imparava con facilità. Non ci volle molto perché superasse gran parte dei suoi commilitoni: la sua bravura le procurò molta ammirazione e la diffidenza di cui era oggetto iniziò a venarsi di rispetto.

Gli allievi erano tutti più grandi di lei, che in Accademia aveva compiuto diciassette anni, a eccezione di un ragazzetto minuto, con una testa di ricci biondi, gli occhi grigi e le guance paffute.

Nihal l’aveva a malapena notato, perché aveva smesso da tempo di tentare di socializzare. Finché una mattina, in refettorio, lui non la andò a cercare.

Nihal stava consumando il suo pasto sola, come al solito, quando udì una vocina sottile: «Scusa, è libero?».

La cosa era talmente insolita che prima di rispondere Nihal si voltò verso lo sconosciuto interlocutore per essere sicura di aver sentito bene. E questo chi diavolo è? L’ho già visto… Ma dove?

«Be’, se non c’è nessuno mi siedo.»

Nihal continuò a guardarlo incredula, il cucchiaio a mezz’aria.

Il biondino si accomodò, prese una cucchiaiata di minestra, ne prese un’altra, cincischiò un po’ con il pane, poi si schiarì la voce e iniziò a parlare come un torrente in piena. «Tu sei Nihal, il mezzelfo, vero? È da quando sei qui che ti osservo. Cioè, veramente da quando ti hanno messo con noi in squadra.