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Fu un viaggio snervante e terribile.

All’inizio gli aspiranti cavalieri l’avevano preso come un gita: parlavano tra di loro allegramente, discutendo della prova come se non si trattasse di una questione di vita o di morte, ma di un gioco.

Ora che avevano visto la crudezza della guerra, nessuno aveva più il coraggio di scherzare.

Alcuni smisero di guardare fuori.

Altri cercarono di distrarsi chiacchierando.

Solo Nihal non distolse mai lo sguardo da quel panorama di desolazione. Riempiti gli occhi di questo orrore, si diceva, e ricordatene quando sarai in battaglia.

Il tramonto del ventesimo giorno di viaggio giunsero alla piana di Therorn. L’aspetto del luogo non era incoraggiante: le tende malmesse sorgevano nei pressi delle macerie di una torre e c’erano parecchi feriti.

Era la prima volta che Nihal vedeva un accampamento, ma si stupì di quanto quello spettacolo le sembrasse familiare.

Sennar non si trovava lì: aveva chiesto di lui, scoprendo che risiedeva nel campo principale, che era piuttosto distante. Le truppe sotto il comando di Fen, in compenso, non erano lontane, e l’azione del giorno seguente sarebbe stata condotta unitamente a esse. A quella notizia Nihal sentì il classico tuffo al cuore, ma non ebbe tempo di pensarci: lei e gli altri cinque ragazzi del suo gruppo vennero immediatamente condotti nella tenda del generale preposto a quell’area di combattimento.

Il generale era un uomo ruvido. Cominciò subito con l’impaurirli. «Questo non è un gioco. Quello che vi insegnano in Accademia sono scemenze da damerini. La guerra è un’altra cosa: non c’è posto per i convenevoli, né per i manuali di spada. Quando siete nella mischia valgono solo l’ordine del vostro superiore e quanti nemici fate fuori. Quindi non pensiate che siamo qui a farvi da balia. Il vostro primo dovere è obbedire. Se non rispettate gli ordini e finite nei guai, sta a voi tirarvi fuori. Ed evitate di contare troppo sul vostro supervisore: in combattimento la sopravvivenza è affar vostro. Per quel che riguarda la battaglia di domani, si tratta di un assalto a una fortezza che teniamo sotto assedio da tempo: le loro scorte di cibo e acqua sono quasi terminate, dunque è il momento giusto per attaccare. Inizieremo un’ora prima dell’alba. Gli arcieri creeranno un po’ di scompiglio all’interno, poi i Cavalieri di Drago attaccheranno dal cielo, mentre la prima linea di fanti darà l’assalto alle mura e al portone. Voi sarete in seconda linea: dopo lo sfondamento entrerete con gli altri e a quel punto non dovrete far altro che penetrare nel castello. I particolari vi saranno dati prima dell’attacco. La sveglia è per la terza ora dalla mezzanotte, quindi vi consiglio di farvi un buon sonno. Il rancio è tra due ore. Nel frattempo incontrerete il vostro supervisore, poi potrete fare quel che vorrete. Vi sconsiglio vivamente di uscire dall’accampamento. E non voglio vedervi ficcare il naso dappertutto.»

Il generale alzò i tacchi e se ne andò. I sei aspiranti rimasero interdetti e scoraggiati al centro della tenda. Laio era a un passo dalle lacrime.

«Coraggio» gli sussurrò Nihal.

Il supervisore era abbastanza giovane da non aver dimenticato le emozioni di un allievo dell’Accademia alla sua prima battaglia.

Spiegò nuovamente la missione, disse loro che era a lui che dovevano far riferimento, che lui era responsabile delle loro vite. Gli mostrò le armi e le armature con cui avrebbero combattuto, quindi li congedò tutti tranne Nihal.

«Tu sei il mezzelfo.»

Nihal annuì.

«È di fondamentale importanza che il nemico non sappia della tua esistenza. Sarà il caso che in battaglia tu sia ben camuffata.»

«Perché? Non penso che al Tiranno importi molto di sapermi qui.»

«Il Tiranno ha fatto sterminare la tua gente. Non sappiamo il perché, ma sappiamo che tu sei l’ultima. Se sapesse della tua esistenza tutto l’accampamento potrebbe essere in pericolo. Aver sbandierato il tuo nome ai quattro venti come mi hanno detto che hai fatto a Makrat è stato un errore. In guerra si può perdere un uomo, non un’intera divisione.»

Nihal si sentì di nuovo una minaccia. Quello che aveva pensato dopo la morte di Livon era vero, allora: la sua esistenza era un pericolo per chi le stava a fianco.

Il supervisore le diede un elmo che le coprisse interamente la testa: era fondamentale che non fossero visibili né i capelli né le orecchie.

Fu il primo problema: l’elmo le stringeva dolorosamente.

Il secondo fu l’armatura: le corazze in dotazione erano inadatte al fisico minuto di Nihal. Non ce n’era una che andasse bene.

Il supervisore si spazientì. «Donne! Ci sarà un motivo per cui devono stare a casa a badare ai figli!»

Nihal gettò la corazza a terra.

«Non ho bisogno di tutta questa roba.»

«Ah, sì? Ma bene! Allora appartieni alla categoria degli eroi, che vengono qui pieni d’orgoglio, convinti di compiere imprese straordinarie, giusto? In ogni gruppo di allievi c’è qualcuno così. E sai cosa ti dico? Sono quelli che durano di meno: o muoiono in battaglia o al primo assalto si rintanano in un cantuccio morti di paura.»

«Io non sono qui per giocare, signore, ma per combattere.»

Il supervisore tagliò corto. «Fa’ come vuoi. Bada solo a non mettere in pericolo la vita degli altri.»

Nihal gironzolò per il campo, osservando come anche in quel luogo di guerra scorresse lenta la vita di tutti i giorni. Chi scriveva lettere, chi dormiva, chi lavava le sue cose. C’era una strana assenza di rumori, come una sospensione: sembrava di trovarsi in un luogo fuori dal mondo, in attesa di non si sapeva che cosa.

Il rancio fu parco e consumato in silenzio. Nihal si chiese se fosse sempre così, prima di una battaglia. Pensavano tutti all’indomani? O forse anche a rischiare la vita si fa l’abitudine e alla fine non fa più paura? Per quel che la riguardava, non vedeva l’ora di combattere.

Dopo cena si rinchiusero tutti nelle loro tende. Nihal aspettò che Laio si addormentasse. Quando sentì che il suo respiro si era fatto regolare, si coricò anche lei. Ma dormire non era facile: appena chiudeva gli occhi le vorticavano nel cervello immagini di battaglia, stralci dei suoi incubi, ricordi di quando era bambina. Si sentiva scoppiare la testa. Si tirò su sconfitta e uscì dall’alloggiamento.

Fuori fu assalita dal freddo. Si avvolse nel mantello e si incamminò per il campo addormentato, avvolto nella foschia. C’era una calma perfetta, irreale. Un’atmosfera di pace che stonava con la distruzione che aveva visto durante il viaggio.

Nihal camminò a lungo, finché dalla notte non emerse la sagoma della torre diroccata. I mattoni di quella città sconosciuta e ormai morta le rivolgevano una specie di richiamo. La raggiunse e si arrampicò su quel che restava di una scala. Si era miracolosamente salvata dalla distruzione, ma era sconnessa e mancavano alcuni gradini: si avvolgeva incerta di piano in piano, conducendo fin quasi alla sommità della torre. Poco prima della cima, dove un tempo doveva essere la terrazza, si arrestava: i piani alti erano crollati del tutto.

Le pietre della torre sembravano parlare a Nihal della sua vita nella Terra del Vento. In quei muri sfigurati dal fuoco e dalla violenza degli uomini riconobbe i negozi, le case, le sale delle assemblee.

C’era anche una fucina come quella di Livon. Alcuni ambienti erano ancora intatti, molti altri erano sventrati e davano sul vuoto. Giunse in una stanza più grande, spaccata in due da un crollo. Si affacciò e vide i resti del giardino interno della torre, quello in cui un tempo gli abitanti coltivavano i loro orti e all’ombra dei cui alberi amavano prendere il fresco d’estate. Per gran parte era distrutto, ma nel mezzo c’era ancora un ulivo. Il suo tronco ritorto narrava la storia di una vita lunga, travagliata, ma che resisteva. A Nihal sembrò bello come una scultura.

Quell’immagine aprì il passo ai ricordi. Le tornò in mente l’iniziazione nel bosco, quando aveva sentito battere il cuore della terra. E quel battito segreto Nihal ora lo risentiva, a dimostrazione che, nonostante lei avesse scelto la via della guerra, il patto con la natura non era rotto.