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«Aspetta, ti aiuto» fece la donna. Posò il vassoio a terra e la sollevò, mettendole il cuscino dietro la schiena.

Nihal si guardò intorno: la camera era piuttosto piccola e tutto l’arredamento consisteva nel letto, in un grande specchio e in una cassapanca sotto la finestra, dalla quale pendeva una tenda azzurra di cotone sottile. Alla ragazza sembrò una reggia. Abbassò gli occhi e si accorse di indossare una camicia da notte di lana, con un nastrino a chiuderle il colletto.

«Dov’è la mia spada?» chiese allarmata.

La donna indicò un angolo della stanza.

«Non temere, è là.» La spada era ancora protetta dal fodero, e giaceva appoggiata al muro. «I vestiti li ho lavati, erano tutti intrisi di sangue. Spero che la camicia da notte ti tenga abbastanza caldo…»

Nihal arrossì: non era stata molto educata. «Sì, certo. Grazie» mormorò.

La donna le mise il vassoio sulle ginocchia e Nihal si gettò sulla scodella, sorseggiandone rumorosamente il contenuto, e poi addentando il pane.

Jona, fermo sulla soglia della camera, la guardava stupito.

La donna sorrise. «Deve essere parecchio che non mangi…»

Nihal si fermò un istante e guardò la scodella. «Be’… sì.» La gentilezza di quella donna la metteva in imbarazzo.

«Sbaglio o per te è l’ora del sonnellino?» disse la donna al bambino.

«Dai, mamma… Fammi restare con la signorina…»

«A nanna senza discutere!»

Jona se ne andò sbuffando.

«Così non ti darà fastidio: quando ci si mette è un chiacchierone insopportabile…»

Nihal ricominciò a mangiare in silenzio. Era un bel guaio quello che le era capitato: se voleva rifarsi una vita doveva andare il più lontano possibile dalla guerra. Stare lì era pericoloso. Doveva andarsene in fretta.

La donna la osservò per un po’. «Io sono Eleusi. E tu?»

Nihal la guardò con sospetto.

Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, che Eleusi si affrettò a colmare: «Non fa niente, se non vuoi dirmelo…».

La zuppa era quasi finita. La ragazza posò la scodella e diede una breve stretta alla mano che Eleusi le porgeva. «Nihal.»

«Che strano nome. Non è di queste parti. Da dove…?»

Ecco. Comincia a diventare curiosa. Nihal fece per alzarsi. «Ti ringrazio molto per tutto quello che hai fatto per me…»

Eleusi la fermò. «No, aspetta. Scusa se sono stata invadente. Volevo solo parlare un po’.»

Nihal si sentì a disagio. «Non è per questo, è che davvero non posso…»

Eleusi la costrinse dolcemente a coricarsi. «Ascolta, non sei in grado di metterti in cammino. Sei reduce dalla febbre, sei debole. E poi, ho dovuto darti dei punti sulla gamba…»

Nihal sgranò gli occhi. «Come?»

Aveva sentito parlare di quella pratica. Quando non c’era un mago che potesse recitare incantesimi di guarigione, toccava ai sacerdoti rimediare alle ferite, e talvolta prendevano ago e filo e ricucivano. Alla base, una volta, passando vicino all’infermeria aveva sentito gli strilli di un soldato a cui stavano somministrando quella cura: si era detta che avrebbe preferito morire piuttosto che farsi fare una cosa del genere.

«Sai, la ferita si era riaperta…» le spiegò Eleusi. «Devi riposare. Una settimana come minimo. Credimi, lo dico per te.»

Dannazione. Nihal si adagiò sul cuscino. «Sei una sacerdotessa?»

«No. Ma mio padre era sacerdote. È lui che mi ha insegnato. Ti è andata bene, sono molto ricercata come guaritrice!» scherzò la donna.

Nihal aveva finito di mangiare.

Eleusi vide il vassoio vuoto. «Hai ancora fame? Vuoi un po’ di formaggio? Ho qualche mela…»

Nihal annuì debolmente e la donna scappò via dalla stanza.

Tornò poco dopo con un piatto: qualche castagna, delle noci, un paio di mele e un minuscolo pezzetto di formaggio. «Non è granché, mi dispiace. L’annata è molto magra.»

Nihal addentò la mela: era dolcissima.

Eleusi si sedette sulla cassapanca. «Quando ero piccola andavo sempre a giocare nel bosco: i lupi non attaccavano mai gli uomini. Solo qualche pecora, ma raramente. Ora invece la guerra li scaccia dai loro territori e hanno cominciato a diventare aggressivi. È la quarta volta dall’inizio dell’inverno che attaccano i bambini. Maledetta guerra…»

Nihal aveva finito la mela. Si schiarì la voce. «Senti, Eleusi…»

«Dimmi.»

«Io… ecco… insomma, non voglio occupare il tuo letto. Mi basta un po’ di paglia.»

La donna scosse il capo. «Non se ne parla nemmeno! Hai salvato Jona. Darti il mio letto è il minimo» poi prese il vassoio e fece per andarsene.

Nihal la fermò. «Aspetta! Tu sei stata anche troppo gentile. Mi hai curato, mi hai offerto il tuo cibo. Non sai neanche chi sono…»

Prima di uscire dalla stanza Eleusi le sorrise. «Io giudico dalle azioni. E tu non puoi che essere una brava ragazza.»

Per alcuni giorni Nihal fu costretta a letto. Jona andava spesso a trovarla: era un bambino divertente, pieno di curiosità e chiacchierone, proprio come aveva detto la madre. La mattina presto entrava in camera come un ciclone per augurarle il buongiorno.

La cosa che più lo interessava era la spada. Tempestava Nihal di domande: se era pesante, di cosa era fatta, se tagliava molto…

Nihal provava una simpatia istintiva per quel bambino. «Se ti piace così tanto, prendila in mano» gli disse un giorno.

«Dici davvero? Posso?» domandò lui tutto emozionato.

Nihal si chiese se anche lei, da piccola, faceva la stessa faccia di fronte alle armi di Livon. «Certo che puoi. Ma non devi toccare la lama. E non ti devi allontanare da me.»

Non senza fatica, Jona prese la spada con tutto il fodero: era alta più o meno quanto lui. La porse a Nihal, che lo aiutò a sguainarla.

Gli occhi gli brillavano. «Come luccica…»

«È fatta di un materiale che si chiama cristallo nero.»

Jona la guardava da tutte le angolazioni. «E questo coso bianco?»

«Si chiama Lacrima: me l’ha data un folletto.»

Il faccino di Jona si illuminò. «Conosci i folletti?»

Nihal sorrise. «Certo.»

«E come sono fatti? Qui non ce ne sono!»

«Sono grandi poco più della tua faccia e hanno i capelli di tutti i colori. E poi hanno le ali e svolazzano di qua e di là. Quella pietra bianca è un segno di riconoscimento. Vuol dire che sono amica del popolo dei folletti. E poi serve anche a rendere più forti gli incantesimi.»

Jona restò a bocca aperta. «Incantesimi? Sai fare gli incantesimi?»

«No. Cioè, sì, ma solo qualcosina…» si schermì Nihal

«Dai! Ti prego! Me ne fai vedere uno?»

«Ora no, Jona. Magari quando sto meglio…»

Jona batté le mani eccitato.

I giorni di convalescenza furono piacevoli. Eleusi era un’ospite deliziosa: circondava Nihal di mille attenzioni e non le faceva mancare niente. Non le aveva più fatto domande, ma di tanto in tanto la intratteneva chiacchierando: era prodiga di racconti sulla sua vita.

Nihal seppe così che era molto giovane e che suo marito era un soldato: combatteva nella Terra del Vento e tornava a casa una volta all’anno, per un mese.

«Di solito gli danno la licenza in autunno, e viene in tempo per arare il campo. Però qualche volta ci fa una sorpresa e ce lo vediamo arrivare durante l’inverno, o d’estate. Certo, ultimamente non capita spesso… sai, la guerra va male.»

Nihal si stupì. «E non ti manca? Insomma, non ti dispiace che non ci sia mai?»

«Certo che mi manca. Quando decise di partire, due anni fa, ne discutemmo a lungo. Ma non poteva più sopportare le ingiustizie a cui assisteva di continuo, ed era stanco di vedere i suoi amici partire e non tornare più… Quando sono triste, mi consolo pensando che combatte perché un giorno Jona possa vivere libero. Che futuro potrebbe avere nostro figlio con il Tiranno?» Eleusi fece una lunga pausa. «Io sono orgogliosa di mio marito.»

Quelle parole colpirono Nihaclass="underline" il compagno di Eleusi sapeva quello che faceva, e per chi lo faceva. Aveva qualcuno da proteggere, combatteva per uno scopo. Rispetto a quello sconosciuto, che per suo figlio e sua moglie aveva rinunciato a una vita tranquilla, si sentì meschina.