Nihal non aveva mai vissuto in un ambiente tanto sereno. Capì che cosa fosse una vera famiglia e arrivò a pensare che era molto meglio di quello che aveva provato con Livon. Lei e il Vecchio non erano una famiglia: erano due sbandati che la vita aveva messo insieme per supportarsi a vicenda. Si volevano bene, ma lui non le aveva saputo dare quello che Eleusi donava al figlio. Nella sua vita non c’era mai stata la tranquillità, il senso di protezione che percepiva fra quelle quattro mura. Si meravigliava di come non se ne fosse mai accorta prima. Ma ora poteva rimediare, poteva riprendersi ciò che le era stato tolto: stare lì significava avere una seconda possibilità.
Prima di addormentarsi fantasticò di rimanere nella piccola casa gialla per sempre.
Appoggiata al muro, la sua spada iniziava a impolverarsi.
La mattina dava una mano in casa: con i lavori domestici era una frana, ma era animata da una straripante voglia di imparare. Seguiva passo passo Eleusi mentre sbrigava le faccende e cercava di esserle utile.
Imparò a cucinare. Nonostante il primo fallimentare tentativo con il pane, scoprì che le piaceva. Non solo, aveva talento: si lasciava guidare dall’istinto e i suoi piatti erano saporiti.
Ma soprattutto si occupava dell’orto. Gli anni di addestramento con la spada l’avevano resa forte e le piaceva mettere la sua resistenza al servizio di quel fazzoletto di terra che dava loro da vivere.
La sera Jona raccontava le storie che aveva appreso dal saggio e le scorribande che aveva fatto con i suoi amici. Nihal ascoltava, senza pensare a nulla.
Non rimpiangeva più Livon, aveva archiviato Soana in un angolo recondito della sua mente, persino il viso di Fen era ormai un’immagine confusa. Ma non poteva dimenticare tutti. Sennar continuava a essere un ricordo vivo, presente, che le stringeva il cuore. Cercava di scacciare anche lui dai suoi pensieri, ma in fondo all’anima sentiva che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con se stessa.
L’inverno era rigido e la legna iniziava a scarseggiare. Occorreva andare a farne della nuova, ed Eleusi pensò di chiedere a Nihal di occuparsene.
«Non sono per niente brava con l’ascia» si scusò. «Di solito ci pensa mio marito…»
La ragazza accettò di buon grado: «Non ti preoccupare, lo faccio volentieri. Anzi, porto con me anche Jona, così ci facciamo una passeggiata nel bosco».
Nihal e Jona andavano spesso nel bosco a giocare, a raccontarsi storie o semplicemente a passeggiare. Jona la guardava con occhi sognanti. Per lui una donna che faceva il soldato era il massimo: le femmine lo mettevano in agitazione, con tutte le loro moine e il loro modo di fare le preziose, ma lei era diversa. Lei si divertiva a buttarsi nella neve, non si stancava mai di starlo ad ascoltare ed era forte come un uomo. Jona la esibiva ai suoi amici con orgoglio, presentandola come un soldato.
In Jona Nihal rivedeva se stessa da bambina. La sua compagnia la rasserenava: amava il modo ingenuo con cui guardava alle cose, le piaceva giocare con lui o farlo divertire con qualche piccola magia. Un paio di volte accettò persino di combattere con una spada di legno, ma quando lui le chiedeva di raccontargli qualche storia di guerra, tergiversava dicendo di non ricordare.
Quella mattina si imbacuccarono per bene e si diressero verso la foresta. Camminavano canticchiando un motivo che Jona aveva insegnato a Nihal, mentre la scure pendeva dalle mani della mezzelfo tracciando nella neve una lunga linea sinuosa.
Quando giunsero alla piccola radura dove si erano incontrati la prima volta, Nihal vide un bell’alberello secco, perfetto per il camino.
«Allontanati, Jona. Credo che la nostra ricerca sia finita.»
Impugnò l’ascia, sentendo quasi una scossa. Ne guardò la lama come se non ne avesse mai vista una.
«Che cos’hai?» chiese Jona. Non gli era sfuggita l’aria pensierosa di Nihal.
La ragazza si riscosse. «Mi sono solo ricordata di quando combattevo con questa.»
Jona non si fece scappare l’occasione e iniziò a salterellarle intorno. «Fammi vedere che cosa facevi, dai! Fammi vedere!»
La scure era lì, sembrava la chiamasse. Ma sì, perché non accontentarlo? La impugnò saldamente. Poi fu la memoria del corpo a farla muovere.
Nihal iniziò a far volteggiare l’ascia sempre più veloce, quindi prese a tagliare l’aria con movimenti rapidi e precisi. La lama roteava e lei ricordava ogni esercizio, ogni singolo giorno dell’Accademia, ogni ora di allenamento. Si stupì di averne nostalgia: era stata male in quell’edificio, era stata sola, fatta eccezione per la compagnia di Malerba e di Laio, eppure rimpiangeva le lezioni, la spada, il sudore. Rimpiangeva la battaglia, il suo corpo che si muoveva agile, la lama nera che brillava al sole… la sensazione di essere finalmente se stessa… la riscoperta delle sue radici nella lotta e…No!
Lasciò cadere la scure di colpo.
Non è la guerra che vuoi, non è il combattimento! Le sere davanti al fuoco, la vita con Eleusi e Jona, il vestito grazioso che indossi… Questo deve essere il tuo futuro!
Jona vide Nihal incupirsi e il sorriso gli morì sulle labbra. «Sei arrabbiata?» le chiese titubante.
«Non è niente» rispose Nihal ancora turbata «brutti ricordi. Sbrighiamoci o si fa tardi» e senza aggiungere altro iniziò ad abbattere l’albero con colpi secchi e decisi.
Il cammino verso casa lo fece in silenzio.
Jona la guardava di sottecchi. «È colpa mia, vero?»
«Che cosa, Jona?» rispose fredda Nihal. Non aveva voglia di parlare. Poi però si accorse che il bambino aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Che sei diventata triste…»
Nihal si fermò, gli sorrise. Poi si chinò verso di lui e gli schioccò un bacio sulla guancia. «No, piccolo. Non sono triste. Davvero. E ora forza, andiamo a casa a fare una bella merenda!» rispose dandogli un affettuoso sculaccione.
Jona riprese a trotterellare sul sentiero, rasserenato, ma Nihal sapeva di aver detto una bugia.
Eleusi le fece la proposta un pomeriggio: erano sedute al tavolo e Jona era fuori a giocare. La donna depose il grembiule che stava rammendando e guardò Nihal. «Senti, tu sei una maga, giusto?»
«Perché me lo chiedi?» rispose Nihal dubbiosa.
«Ho pensato che potresti venire con me a fare la guaritrice. Darmi una mano con i tuoi incantesimi, insomma…»
Nihal era scettica. La sola idea di mostrarsi in giro la metteva in agitazione. «Non so…»
«Diremo che vieni da un’altra Terra, da qualche posto lontano, e che sei fuggita per la guerra. Potremmo dire che sei figlia di una ninfa! Le ninfe qui nessuno sa nemmeno come sono fatte. E poi non puoi nasconderti per sempre, Nihal.»
Eleusi desiderava che la ragazza mettesse radici. E, se iniziava a sentirsi utile, forse non sarebbe andata via.
Il loro primo incarico in coppia lo ricevettero una sera che nevicava fitto. Un bambino del villaggio era caduto da una scala battendo la testa e non aveva più ripreso conoscenza. Eleusi e Nihal affrontarono il sentiero nel buio della notte: il freddo penetrava nelle ossa.
Raggiunta la casa, entrarono in punta di piedi. Su un letto giaceva un ragazzino pallido come un cencio, con una larga macchia rossa sulla fronte dalla quale, attraverso un bendaggio di fortuna, colava ancora sangue. A Nihal quell’immagine riportò alla memoria la guerra, ma si sforzò di scacciare i ricordi.
«Sono io, Mira. Non piangere, sono qui per tuo figlio» disse Eleusi sottovoce. Dovette prendere delicatamente la donna per le spalle per allontanarla dal giaciglio. Nella stanza c’era anche un uomo, dietro al quale si nascondeva timorosa una bimba bionda. Fu a lui che Eleusi si rivolse. «Dimmi con precisione che cosa è accaduto.»
Mentre l’uomo raccontava con voce concitata quello che era successo, Nihal si guardava intorno. Si sentiva fuori posto: non era una sacerdotessa, non era capace di dire che cosa avesse quel bambino. Fino ad allora aveva curato solo se stessa, e con incantesimi molto blandi. La bambina, poi, non le staccava gli occhi di dosso.